Ben Solomon | Echolocation

13.12.2024

Sfogliando il web alla ricerca di qualche notizia biografica riguardo il tenorsassofonista di Chicago Ben Solomon, ho inevitabilmente incrociato qualche recensione del suo ultimo album, Echolocation, il secondo se escludiamo l'EP Neutrinos uscito quasi in contemporanea. Ma mentre quest'ultimo extended è una raccolta frammentaria di schizzi mai terminati o di brevi annotazioni sonore elettroniche adatte al commento di immagini e documentari, Echolocation è un vero jazz album per quartetto, di forte impronta coltraniana e registrato live all'Ornithology Jazz Club di New York nel dicembre del 2023.

 

Solomon si è costruito un carattere ben delineato, come sassofonista, attraverso diverse esperienze tra cui quelle con Chick Corea, con il trombettista Wallace Roney e da ultimo nell'ambito del quartetto del pianista Aaron Parks.

 

Le recensioni statunitensi in cui mi sono imbattuto sono state però inaspettatamente piuttosto tiepide, alcune addirittura velatamente un po' aspre come scrive Abe Goldstein su Papat’amus Redux che termina la propria analisi critica con le parole “è una registrazione abbastanza bella, ma se volete sperimentare la vera bellezza di Coltrane... ascoltate Coltrane!”.

 

In realtà Solomon ha raccolto, almeno in alcune circostanze, alcune osservazioni per me assolutamente ingenerose. Se l'eventuale limite contestatogli sta nell'essere troppo simile a Coltrane, non vedo in questo alcunché di riduttivo, tenendo presente che Echolocation non è affatto un tributo. Come se, paradossalmente, ispirarsi ai Maestri fosse un vero e proprio ostacolo alla crescita musicale d'un artista. Non credo che il jazz sia necessariamente obbligato a sfornare per forza sempre lavori originali e d'altra parte questo album di Solomon suona non solo profondamente affascinante ma si evince – e senza tante difficoltà – il tentativo di ricerca e di espansione progettuale, anche al di là del limite posto dalla tradizione facente capo alla personalità di Coltrane. Tanto per cominciare, questo è un album live dove non sono possibili ritocchi né tanto meno aggiustamenti in opera. In questa performance, invece, si percepisce molto bene la maturità e la professionalità del leader al sax tenore e si può ragionevolmente apprezzare anche la coesione e la scossa energetica del gruppo che lo accompagna. Il pianista Davis Whitfield – figlio del più noto chitarrista Mark – segue indirettamente le orme coltraniane subendo a sua volta l'influsso evidente di McCoy Tyner, mentre Rashaan Carter al contrabbasso e Kush Abadey alla batteria costituiscono una propulsiva e spesso imprevedibile base ritmica.

 

Altra osservazione a favore di Solomon e sodali sta nell'impronta a tratti “impressionista” – si sentono passaggi alla Debussy e inoltre l'ultimo brano dell'album è del compositore spagnolo Manuel de Falla, anch'egli appartenente allo stesso filone storico – che compare in alcune tracce, come si dimostrerà nell'analisi delle stesse, perché come dichiara lo stesso Solomon “i brani... traggono ispirazione da imitazioni musicali della Natura, [e dalla] … musica impressionista”, fonte Bandcamp, vedi qui.

 

Del resto, Solomon aggiunge anche che “la maggior parte di questi brani è nata come pezzi per pianoforte”, confermando un arco stilistico di notevole ampiezza, inclusa la suggestione del classicismo europeo fin de siecle. Qualche refolo fiatistico mi ha ricordato inoltre sprazzi di Ornette Coleman, ma si tratta solo di rapide parentesi in un'economia sonora che ha il pregio di non richiedere particolari decriptazioni all'ascolto, ma di possedere comunque un alone misterioso e interiorizzato che fa di Echolocation una creazione sciolta dai lacci degli stereotipi, nonostante i riferimenti inequivocabili a John Coltrane.

 

L'impressione è che Solomon cerchi rispondenze in un'eco interiore, laddove Solomon si spinge ai confini di una certa astrazione, con improvvisazioni fluide in uno stile contemporaneo e visionario, lasciando spazi aperti sorretti dai contrafforti di un pianoforte che si muove in un territorio ambiguo, tra le suggestioni dovute al già citato McCoy Tyner e le risonanze di una tradizione che si richiama ai classici del primo '900.

 

Ben Solomon - Echolocation

 

Primo brano è Reflection Pool, che è tutto un arpeggiare di note pianistiche con il richiamo del sax che sembra rifare il verso al Prelude a l'Après Midi d'un Faune in una stazione di mezzo tra John, Alice Coltrane e Claude Debussy. Si tratta di un'intensa introduzione di tono meditativo, un invito a un ascolto profondo, un'introspezione sonora alla ricerca di una riflessione sul senso della propria musica. L'aspetto monolitico, apparentemente informale con cui Solomon affronta il brano, è un chiaro riferimento agli esempi modali di Coltrane, giocando con l'equilibrio dell'intensità emotiva, mescolando tradizione e sperimentazione con coraggio e abilità tecnica. La sezione ritmica appare e scompare cercando l'opportuna sintonia con il clima modernamente bucolico impostato dall'Autore.

Echolocation, la title track, è inizialmente un dialogo a due tra sax e batteria. Lo splendido attacco che coinvolge tutti gli strumenti prelude a una struttura spinta fino al limite dell'astratto – e qui fa capolino anche la suggestione di Coleman – mentre l'improvvisazione si crea all'interno del magmatico contesto musicale, caratterizzato da un lungo assolo di contrabbasso. Ascoltando con attenzione il contrappunto pianistico ci si rende conto di come gli accordi e le preparazioni armoniche adottate di Whitfield siano la sintesi tra la modernità del jazz e la già citata memoria della tradizione classica europea. Anche il sax si esprime magnificamente, affrontando momenti free e altri più malleabili, con grande calore e partecipazione. I musicisti appaiono concentrati e vitali e qua e là affiorano gli applausi di una platea che pare sorpresa dall'ascolto di questa insolita mescolanza di umori.

Interlude n°1 è un breve respiro in cui Solomon si muove in assoluta libertà, coadiuvato dal resto del gruppo che, pianoforte compreso, gli offre una solida spalla ritmica. Il brano cambia spesso di tonalità ma i vari transienti sono spontanei e avvengono senza alcun sforzo percepibile.

 

Ben Solomon

 

Generalife è un “similblues” dai confini ultraterreni che avrebbe potuto essere benissimo composto negli anni '50-'60, scolpito nei potenti chiaroscuri che contrabbasso e batteria s'ingegnano a costruirvi attorno. Whitfield, dal canto suo, prova a svincolarsi nel suo assolo dal fantasma di McCoy Tyner, appagandosi in una limitata sequenza di accordi che il pianista combina tra loro utilizzando prevalentemente la mano sinistra e disegnando interessanti fioriture di note con la mano destra.

Scene Change s'imposta su un tema dalla struttura piuttosto classica, col sax che acquisisce una doppia funzione, quella “creativa” di una linea melodica a tratti anche orecchiabile e quella “distruttiva” in cui le volute ristrette del fraseggio minano scientemente alla base l'andamento tematico stesso. Però non si può fare a meno di annotare la squisita perizia strumentale di Solomon che imperversa con il suo sax in lungo e in largo tra il supporto diligente della ritmica. Impressiona anche Abadey con il drumming pieno ma non soverchiante del proprio set percussivo, che continuamente interagisce con il sax, senza peraltro limitarsi a un accompagnamento nudo e puro.

Segue poi quello che per me è il brano migliore, insieme al primo pezzo della selezione. Secret Garden mostra infatti istanti di riflessione quasi estatica, in cui un pianoforte ricco di colore offre la giusta tensione armonica tenendo in bilico il senso della coesione, dando profondità e respiro all'intera narrazione musicale. Il sax si esprime con lacerante malinconia in una dimensione quasi esoterica, piena di ombre e di misteriose presenze.

Interlude n°2 è solo un brevissimo frammento, probabilmente estratto in un momento improvvisativo in cui la batteria stava dando il meglio di sé.

Will'O' Wisp è il titolo inglese di un brano originale di Manuel de Falla, Cancion del Fuego Fatuo, tratto da El Amor Brujo, un balletto in un atto su musica del compositore spagnolo scritta nel 1914. La stessa aria fu anche incisa da Miles Davis e la si trova nell'album Sketches of Spain del 1960. Nella produzione di Solomon il brano si prolunga per oltre dieci minuti con il tema nitido originale esposto una prima volta accompagnato dal rullante di Abadey in evidenza. La seconda esposizione, come prevedibile, esplode con la feroce improvvisazione di stampo tutto coltraniano “ultimo periodo”, quindi con tendenza manifesta verso il free. Il pianoforte si sfibra in un assolo in forma quasi sismica, sempre con quella tecnica di salve d'accordi che tendono a rincorrersi e a ripetersi gestiti dalla mano sinistra, mentre la mano destra cerca gloria da par suo. Il ritorno del sax in assolo, sempre tra i passi pesanti del pianoforte – siamo dal vivo, i musicisti si lasciano andare – dura però meno del previsto, andando a confluire sul tema iniziale che viene riproposto pulito, tra gli applausi convinti e meritati del pubblico.

 

Ben Solomon

 

Più ascolto questo album più mi sorprendo di come alcuni – al di là dei gusti personali – non siano riusciti a coglierne la bellezza, distratti dalle analogie con Coltrane. Invece Echolocation, pur mantenendosi in qualche modo centrato sullo schema tema/assolo/tema, esprime un'interpretazione anticonvenzionale, lascia spazi carichi di misteriose vibrazioni e di riflessioni profonde, tra l'altro senza coinvolgersi in eccessive destrutturazioni del linguaggio. Un lavoro quindi, questo di Solomon, a mio parere assolutamente da ascoltare senza pregiudizi.

 

Ben Solomon

Echolocation

CD Giant Steps Arts 2024

Disponibile in streaming su Qobuz 16bit/44kHz e Tidal 16bi/44kHz

 

di Riccardo
Talamazzi
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