Dopo decenni di ascolti trasversali verso molti generi musicali, un po’ quello che ha riguardato tutti noi di età non verdissima, mi son fatto qualche idea sullo stato di una certa parte della musica odierna. Mi dichiaro incompetente verso la musica classica, che comunque ascolto con una certa continuità, lasciando ai veri conoscitori ogni velleità critica a riguardo. Nel rock e nel jazz si osservano due differenti modalità, tenendo però presente i molti legami, gli incroci e i chiasmi che questi due orientamenti hanno avuto e continuano ad avere in comune. Se da un lato il jazz è in persistente e costante evoluzione, soprattutto con l’apertura di nuove frontiere nordiche, balcaniche e mediterranee in tutto il loro splendore, nel rock si assiste ormai da tempo a una sorta di “dorato manierismo”. Fare musica “alla maniera di…” è un po’ diventata l’abitudine stilistica della grande maggioranza delle nuove sorgenti pop-rock, quelle decine di migliaia di musicisti o semplici comparse che in quasi tutto il mondo insistono a proporsi in caleidoscopiche sfumature di una medesima struttura di base.
In effetti, Current Joys, pseudonimo di Nick Rattigan, si ripresenta con questo nuovo disco Voyager dopo un’avventura musicale iniziata nel 2013 e una discografia complicata dalla produzione di audio-cassette, E.P., formati digitali e altro, al di là dei canonici vinili e CD. Il suo affacciarsi nell’ambito della musica, oltre a essere coinvolto nella produzione cinematografica e televisiva, è avvenuto nell’ambito di un gruppo, i Surf Curse, di cui Current Joys era leader e batterista. In cosa consiste il manierismo di questo artista? Innanzitutto, nella voce. Non che non sia suggestiva, anzi, ma ascoltandola vengono alla mente i riferimenti precisi di Robert Smith dei Cure, del cantautore Conor Orbett, di Win Butler degli Arcade Fire, fino ad arrivare a certe sfumature timbriche alla Tom Verlaine o addirittura alla Bono Vox. La sua impostazione vocale s’allinea a quella dei cantanti un po’ depressi e un po’ disperati che sottolineano il loro malessere attraverso una riconoscibile drammatizzazione nell’impostazione della voce. Poi, la musica. L’album è piuttosto bello e piacevole, quasi essenziale negli arrangiamenti e con linee melodiche ben precise. Ma di originalità, ovviamente, non se ne parla. E questo semplicemente perché di ispirazioni veramente nuove – affermiamolo con un certo coraggio – ce ne sono attualmente così poche da numerarle con le dita di una sola mano.
I titoli dei brani dell’album s’ispirano in parte a film di famosi registi, ribadendo il coinvolgimento di Current nell’arte cinematografica, e veicolano contenuti intrisi di un certo tenore drammatico, quando non di oscura angoscia. Eppure, il susseguirsi dei brani raccoglie per strada forse più dolcezze che asperità e non si fa certo fatica a percepire tra le note il talento dell’autore. Forse il commento più azzeccato che abbia letto è quello di Isabel Crabtree dalle pagine di Loud and Quiet, dove con focalizzata sensibilità afferma che “queste canzoni non parlano di felicità ma del ricordare come ci si senta quando si è felici”.
Dancer in the dark inizia bene la sequenza dell’album con un serrato dialogo ritmico tra basso e batteria all’interno del quale s’inserisce la semplice linea del canto. Una sequenza di otto note di piano si sistema a corona attorno allo sviluppo melodico, ben presto rimpolpato da una tastiera a imitazione di un insieme di violini. Brano teso, pulsante, molto gradevole.
American Honey è un classico pezzo da playlist, tutt’altro che banale, una ballad dolce-amara retta nella maniera più classica dal quartetto basso, batteria, chitarra acustica ed elettrica. La voce malinconica viene completata dall’intervento della tastiera, che crea attorno alla melodia un ideale abbraccio consolatorio.
Segue Naked, titolo appropriato per la messa a nudo dell’autore, la cui voce s’infila in un corridoio drammatico di tensione vocale e il ritmo veloce rimanda al post punk, in un clima piuttosto ossessivo fino all’improvvisa e inaspettata troncatura del canto.
Altered States è un altro ottimo pezzo sempre immerso in quel mood fatto di nebbie malinconiche e di spleen, dove la voce assomiglia veramente a un ibrido tra Robert Smith e un Bono Vox con meno note oscure tra le rime. Altro brano da playlist: e sono già due!
Con Breaking the Waves è la drum machine a introdurre il brano, seguita dalla batteria acustica che scansiona implacabile il ritmo di apertura. Ottimo il riff di chitarra, un po’ inquieto, in linea con il testo ossessivo che esprime un inequivocabile bisogno d’amore. Qui compare un raddoppio vocale femminile a opera della cantante Muddy Boyd – non perfettamente intonato, a quanto sembra – ma comunque sufficiente a dare più peso al testo.
Big Star è un titolo per me evocativo, che porta il nome di uno dei più grandi gruppi della storia del rock… Una bella intro di chitarra, semplice e insinuante, e un piano che contrappunta il cantato costituiscono l’essenza scarnificata del brano. Current Joys qui canta bene, con asprezza e pathos.
Notevole pure Amateur, anche se il rischio di un eccesso di glicemia è dietro l’angolo. Mi sembra di ascoltare i Cure qualche decina d’anni dopo, con un testo che è una pura dichiarazione d’amore: “sei ogni canzone che amo, da cui non posso fuggire”. Da notare il ruolo del piano, che qui, come in altre canzoni, sviluppa semplici frasi ripetitive atte a dar colore alla struttura armonica della traccia.
Rebecca è in puro stile Television di Tom Verlaine, una ballata rock con una chitarra ritmica arpeggiata e ben scandita ma con la tastiera forse troppo in evidenza nel finale, che toglie un po’ di naturale ruvidità al brano.
Con Shivers, Current Joys si merita una tirata d’orecchi in quanto l’incipit è la riproposizione papale papale di un vecchio brano di Ray Peterson del 1960, Tell Laura I love Her. Il pezzo è un po’ sottotono e i languori dell’autore questa volta fanno poca presa.
Anche in Something Real ritroviamo la voce della Boyd, però purtroppo il brano è molto pop e molto sfocato.
Money Making Machine ci riporta ancora una volta alle ballate dark alla Cure in puro stile british, anche se qui ci troviamo a Los Angeles, ma in questo frangente c’è comunque un buon tiro di base e tutto scorre come il fiume di Eraclito. Nessun momento memorabile ma la piacevolezza si spalma sulla canzone quasi fosse Nutella sul pane.
Su Voyager pt.1 è meglio sorvolare. C’è un piano suonato in modo elementare, una tastiera invadente, una macchinosa linea melodica e la chiudo qui.
Con Calypso si torna tra le corde naturali di Rattigan, che comunque ha un buon senso della canzone e sa come renderla accattivante, non foss’altro che per le sfumature vocali tremolanti che riescono a essere sempre espressive.
The Spirit of the Curse è solo voce e chitarra acustica, in una forma desublimata in cui l’autore esprime tutto se stesso, senza alcun pudore di mascherarsi.
Vagabond, proprio per il suo aspetto di rock ballad, fa parte di tutto ciò che riesce meglio in questo album, cioè brani semplici, dignitosi, diretti nella forma e con una buona linea melodica, insomma tutti gli ingredienti che Current Joys sa usare con una certa perizia.
Di Voyager part 2 si potrebbe anche fare a meno…
Comunque sia, tra naturali alti e bassi, questo album Voyager è una buona prova d’autore con molti punti a proprio vantaggio, canzoni circonfuse da ineffabili malinconie e dotate di una propria rustica bellezza. Manierismo, certo, come ho accennato all’inizio. Ma dotato di una sottile, seppur discontinua, patina d’oro che contribuisce alla rilucenza di molte delle sue parti.
Current Joys
Voyager
CD e vinile colorato Secretly Canadian 2021
Reperibile in streaming su Qobuz 24bit/96kHz e Tidal16bit/44kHz