Il marchio Oracle Audio, di origine canadese, anzi francofona del Quebec per la precisione, ha sempre goduto di un buon prestigio tra gli analogisti, grazie alla diffusione del modello Delphi, il cui ultra collaudato progetto di giradischi è giunto ormai alla versione MK VI. Questa serie è portatrice di eccellenti idee costruttive, il sistema flottante con dodici componenti e sette filtri meccanici per ognuna delle tre torri è straordinario, ma si colloca in una fascia di prezzo che supera nettamente i 10.000 Euro, con esclusione del braccio. L’idea di produrre un modello più accessibile risale al 2011, ammesso che si possa definire accessibile un listino di 4.900,00 euro, sempre senza considerare il braccio. Abbiate pazienza se enfatizzo la questione prezzo, ma, nel nostro caso, diventa una discriminante fondamentale ai fini di un’equa critica High-End.
Le radici francesi dell'Azienda sono incarnate nelle figure del capo progettista Jacques Riendeau e del fratello, nonché fondatore, Marcel. Pensavo che il nome Paris fosse espressione di un'operazione nostalgico/patriottica. Invece un approfondito studio della redazione ha appurato che il termine Paris non ha alcuna attinenza con la capitale europea, tanto meno con la cittadina del Texas. In realtà cela il personaggio di Paride, principe della Grecia mitologica, che causò la guerra di Troia per aver rapito Elena. Da qui deriva l'appellativo Paris MKV.
Il primo impatto con la macchina non assemblata, appena liberata dall’ottimo doppio imballo, non è stato proprio entusiasmante. Avevo evitato di raccogliere informazioni preventive, ragione per cui ricordo l’impressione di essere al cospetto di un comune giradischi/tavola, come se ne trovano tanti sul mercato. Con l’aggravante che la versione laccata bianco con componenti neri ne facevano un oggetto da arredamento moderno un po’ in contrasto con i miei gusti “classici”.
Una volta schierate tutte le parti sul piano di lavoro, ho potuto iniziare a capire la natura del giradischi, che presentava delle soluzioni “analogiche” interessanti.
Prima di approfondirle, è utile sapere che il Paris viene proposto in varie configurazioni: con il braccio autoctono in fibra di carbonio con fluido smorzante al silicone o senza braccio, con o senza la propria testina, con o senza il coperchio antipolvere e così via.
La versione oggetto delle mie attenzioni è fornita di braccio SME 309, relativa basetta e cavo phono Van Den Hul 502 dotato del classico spinotto DIN con pipetta angolata a 90°. La questione mi rassicurava. Ho molta familiarità con i bracci SME e con il loro montaggio. Il 309, pur non essendo un modello top, garantisce, con semplici upgrade, uno standard di lettura invidiabile. Al contrario, l’innesto e il settaggio sono risultati complicatissimi. Il primo stop è avvenuto quando mi sono reso conto che le viti di aggancio del braccio alla basetta erano corte. Qualunque forzatura sarebbe stata pericolosa, stante che quest’ultima è composta da un legno abbastanza tenero la cui essenza mi resta ignota. Poco male. Ho ordinato le viti appropriate in un negozio specializzato della zona e dopo qualche giorno ho ripreso i lavori.
Niente da fare, altro stop, questa volta clamoroso. Il vano circolare all’interno del quale viene calato tutto l’apparato meccanico inferiore del braccio, fino al perno di accoglienza del cavo, è troppo stretto e non consente in alcun modo l’incastro della pipetta del cavo phono, oltre a inibire lo scorrimento del braccio sui propri binari e la regolazione del VTA. Il cliente che avesse acquistato l’oggetto credo si sarebbe arrabbiato molto e avrebbe avuto tutte le ragioni, soprattutto se poco avvezzo all’assemblaggio di un giradischi. Ho dovuto ideare un adattatore composto da un appendice dello stesso cavo saldata ad una pipetta Cardas, che, grazie alle dimensioni ridotte, mi ha consentito di guadagnare quei millimetri in più di aria, necessari al moto orizzontale dell’apparato di lettura. La costrizione del moto verticale sono riuscito a compensarla utilizzando quattro distanziali, che hanno reso possibile un innalzamento della basetta oltre ad un ulteriore disaccoppiamento della stessa, notoriamente di ottimo impatto migliorativo sul suono. Per fortuna il resto della messa in opera della macchina è stato molto semplice e rapido.
Il Paris è un giradischi semi flottante, con trazione a cinghia e un sistema di sospensione molto originale. La base rigida, in fibra ad alta densità, poggia su tre piedini in Delrin, una resina acetalica simile alla plastica ma molto resistente e leggera (n.d.r.), regolabili per la messa in bolla della struttura. La stessa è attraversata da uno chassis indipendente diagonale che resta libero di ammortizzare su sottili astine in fibra di vetro, le quali si estendono lateralmente all’interno del plinto a mezzo di washers in sorbotane morbido, a loro volta incapsulati in tubetti di plastica resistente, che ne gestiscono il movimento verticale e il bilanciamento in modo da consentire all’utente di livellare il piatto rotante e il braccio in relazione alla tavola fissa e alla puleggia di scorrimento della cinghia.
Il motore è un AC sincrono a basso voltaggio, chiuso in una capsula in lega metallica situata sotto la superficie inferiore del plinto rigido, smorzato per mezzo di un anello in polimero morbido. Purtroppo l’alimentazione è una delle note dolenti del giradischi. Non è altro che un trasformatore da 24V dotato di un cavo sottile e uno spinotto, tipo un caricatore da telefonino. Per regolare la velocità di rotazione bisogna agire su due trimmer situati sul bordo posteriore della tavola. Da una macchina che costa circa 5000,00 euro sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più, anche se la Oracle dichiara che il circuito di oscillazione è in grado di assicurare una stabilità di rotazione perfetta, isolando altresì il sistema elettronico di trasporto da impurità e fluttuazioni.
Viene comunque offerta la possibilità di upgrade acquistando l’alimentatore in uso nel modello Delphi, il Turbo, al costo di 1.100,00 dollari.
L’inserto flottante acquista la libertà di movimento nell’istante in cui vengono sbloccati due mattoncini di alluminio, con le rispettive viti, che ne preservano l’immobilità nella fase del trasporto. Sulla tavola in sospensione sono situati, alle estremità, il vano di fissaggio del sistema braccio e il bearing entro il quale va calato il perno del sistema piatto. Parlo di sistema perché è composto da un under-platter in alluminio, intorno al cui perimetro si avvolge la cinghia di trazione, sormontato da un piatto in acrilico su cui viene adagiato il vinile. Il serbatoio di dimora del perno è dotato di due boccole di precisione ricavate da un polimero denominato peek, noto per l’eccezionale resistenza alle fluttuazioni di temperatura. Questo materiale viene utilizzato sul Delphi e determina ottimi risultati in termini di tolleranze e stabilità. Anche la punta del perno ruota direttamente a contatto con lo stesso elemento, senza l’interposizione di sfere. Prima dell’innesto bisogna iniettare nel serbatoio i 4cc di olio contenuti nella siringa in dotazione. Completa l’insieme un clamp che la Oracle definisce coupling disc, strutturato in due parti di delrin separate, in modo che la porzione a contatto con l’etichetta del LP lavori indipendentemente da quella di bloccaggio. La soluzione è molto intelligente perché mette al riparo il disco in vinile da eventuali danneggiamenti.
In un organismo meccanico in cui il motore è fissato su un piano rigido, mentre piatto rotante e braccio trovano alloggio su un piano flottante, congiunto solo attraverso una cinghia di trazione, il tuning diventa fondamentale. Un solo millimetro di errore risulta fatale per la funzionalità generale. La corrispondenza dei piani viene regolata a mezzo di quattro piccole manopole che si trovano sotto lo chassis, le quali agiscono sull’abbassamento/innalzamento della superficie mobile.
Tra gli accessori del giradischi viene fornita una cosiddetta suspension gauge, una barretta graduata che è il riferimento dell’uniformità della distanza tra piatto rotante e plinth. Frapponendo la barretta in corrispondenza dei punti di regolazione sottostanti, agendo in un range distanziale tra i 10mm e i 12mm, si arriva a conseguire il parallelismo perfetto tra gli elementi rotativi e le superfici. Non è consentito un grosso margine di tolleranza, atteso che la cinghia ha uno spessore di poco inferiore a quello del sotto piatto. A questo punto consiglierei di eseguire una nuova messa in bolla complessiva della macchina agendo sui tre piedini sottostanti il plinto.
Terminate le operazioni di messa a punto, ho scelto di montare una testina Clearaudio Stradivari V2, stante la comprovata sinergia di lettura con il braccio SME 309, oltre la coerenza di accoppiamento, in termini di impedenza, con il cavo Van Den Hul. Ho così provveduto ad adagiare il Paris su un mobiletto Creaktiv con ripiano in massello di abete e a collegarlo al mio impianto principale. Ho avviato quindi un percorso di rodaggio, che mi ha istantaneamente fornito elementi per capire che questa macchina, oltre ad essere estremamente silenziosa, risulta veramente “sorda” nei confronti delle risonanze, intendo sia quelle auto-generate dagli elementi fisici in azione fino a quelle indotte dal calpestio sul pavimento della stanza d’ascolto.
Lo start è leggermente ritardato, ma la rotazione giunge presto a regime. Dopo una settimana il giradischi è a punto. Durante il burn-in, ascoltando distrattamente stralci dei vinili in rotazione, avevo avuto, pur in una esibizione di generale asprezza sonora tipica dei sistemi analogici ancora “freddi”, una clamorosa sensazione di spazialità, unita ad una certa scioltezza nel riprodurre le basse frequenze condita con una notevole dose di energia. Ho pensato quindi di aprire la prova con un disco che, in quanto a estensione e vigore, può essere considerato un master: The Oscar Peterson Trio Bursting Out with the All Star Big Band, Verve V6-8476, registrato in New York City nel Giugno del 1962. L’album non è esagerato solo nel titolo, è magnificente anche nel range orchestrale e negli effetti musicali. Come riferimento immediato basta scorrere le personalità dell’ensemble straordinario che circonda Oscar e la sua task-force ritmica – Ray Brown al contrabbasso con Ed Thigpen alla batteria – in questo lavoro. Clark Terry, Ernie Royal, Pat Brotherly, Roy Eldridge, Snooky Young e Jimmy Nottingham alle trombe. Jimmy Cleveland, Melba Liston, Paul Faulise, Slide Hampton e Britt Woodman ai tromboni. Jude Brotherly, James Moody, Jerome Richardson, Norris Turney, Seldon Powell e George Dorsey ai sassofoni e flauti. Willie Ruff, Ray Alonge, Julius Watkins, Morris Secon e Jimmy Buffington ai French horns. Don Butterfield alla tuba. Siamo al cospetto della più illustre costellazione che abbia mai accompagnato il Trio, supportata dalla scrittura e dalla direzione di Ernie Wilkins, esordiente come sassofonista nella band di Count Basie e maturato come abilissimo orchestratore, noto per le sue trame variegate e per la ricchezza delle idee. Idee perfettamente disegnate per esaltare lo stile di Peterson senza ingolfarlo. Blues For Big Scotia, la traccia di apertura che fa riferimento al soprannome con cui Brown chiamava la signora Lil Peterson, nativa della Nuova Scozia, ne è la dimostrazione. Gli schemi di contrasto tonale modellano una composizione che enfatizza la figura focale del musicista. Il Paris ce la mette tutta.
Non è agevole scomporre quasi chimicamente le trame individuali di una Big Band e, allo stesso tempo, tenerla compatta in una realtà tridimensionale. La scena è ampia, a conferma delle impressioni primordiali. La profondità dell’insieme non è proprio esaltante, mentre l’accuratezza del dettaglio sorprende, proprio nel momento in cui si riesce a individuare la tuba che si esprime appena sotto corrente. Il piano di Peterson la fa da protagonista, grazie a una incisione intenzionalmente sbilanciata rispetto al tessuto generale. Il basso di Ray Brown, ahimè, risulta un po’ lontano. La sequenza dei brani e i caleidoscopici contrastanti caratteri compositivi - si passa dallo standard West Coast Blues, walzer molto rootsy venato di blues, al rilassato Here’s That Rainy Day, fino allo swing up-tempo di I Love You -, proprio per l’esuberante dialogo tra gli strumenti non sono facili da gestire a livello di riproduzione. Qualcosa si perde per strada e non sempre la rapidità dei cambi di ritmo è supportata da eguale reattività all’atto della lettura dei solchi del vinile.
Comunque il tocco di Willie Ruff al corno francese e l’assolo di Norris Turney al sax valgono la facciata, che si chiude con Daahood, uno dei pezzi preferiti di Oscar, dove finalmente la sua indomita sezione ritmica si esalta in un unico inimitabile dinamismo. Il basso torna avanti, mettendo in condizioni il Paris di evidenziare quelle che sono le proprie migliori virtù. Una marcata eufonia delle parti medio alte non inficia un sound decisamente eccitante. Dopo Tricotism, brano disegnato a contorno del dialogo serrato tra Brown e Peterson, e I’m Old Fashioned, immensa espressione di destrezza orchestrale e sottile uso dei flauti, inizia la traccia più straordinaria dell’album, Young & Foolish, fulgente ventaglio di tutti i colori di un’orchestra, con richiami neanche tanto velati alle Big Band del primo Claude Thornhill, ma con una maggiore ricchezza dovuta alla presenza della sezione dei corni francesi. La conclusiva Manteca è stato uno dei primi jazz hits ispirati dalla musica latino/americana. Qui si può ascoltare in una versione vividamente arrangiata. L’implacabile beat del più talentuoso contrabbassista del jazz, a braccetto con il più talentuoso pianista, regala all’ascoltatore un sound gioioso e gratificante. Accade in questa traccia così come in molte altre composizioni nate durante il loro sodalizio durato undici anni. Merita un tributo la qualità del suono ottenuta dall’ingegnere Ray Hall, sotto la super visione di Jim Davis, durante le cinque sessioni di registrazione. Il felice connubio tra ispirazione e tecnica, il coinvolgimento degli artisti e la loro inclinazione alla comunicazione, fanno dell’album in questione uno degli esperimenti più riusciti di excitement in jazz. Al Paris bisogna riconoscere la capacità di averne estrapolate discrete quote di essenza, seppure con una serie di limiti registrati in ordine alla naturalezza del messaggio sonoro, alla pienezza della scena e all’equilibrio timbrico, alla nitidezza e alla stabilità dell’immagine. Devo confessare che non mi aspettavo di più. Semplicemente perché un giradischi concepito con i criteri del nostro, ovvero leggero, con masse in gioco abbastanza ridotte e i materiali descritti, non ha i mezzi per poter dare di più. Al crescere dei musicisti e degli strumenti, proporzionalmente ne esce ridotta la capacità di gestione di un complesso sonoro molto articolato. Se dovessi dare un voto relativo alla riproduzione di un’orchestra, sarebbe una sufficienza molto risicata. La situazione migliora se semplifichiamo i compiti. La semplificazione si chiama Flamenco Festival, di Carlos Montoya e il suo Flamenco Group, RCA Victor, LPM-1713, registrato a Madrid nel Marzo 1958 e definito dall’etichetta A “New Orthophonic” High Fidelity Recording, la cui brillante fedeltà al vero offriva assicurazioni contro ogni pericolo di obsolescenza dell’incisione. In questo album Montoya è accompagnato dal gruppo Spanish Gipsy Singers and Dancers, dieci co-performers, che, pur non avendo mai lavorato col maestro, danno vita a una vera e propria Flamenco jam session, in barba a tutti i timori che animavano le notti insonni degli ingegneri e dei produttori, consapevoli del talento ma anche del temperamento individualista degli artisti in campo. Niente di più sbagliato. L’album fu inciso in poco più di quattro ore, con molte parti buone alla prima. Il risultato è strepitoso. Una forte e insistente base ritmica, un beat potente e sincopato, sprizzato da improvvisazione individuale ed eccitante spontaneità all’interno di una struttura a schema regolare. Le tre principali forme del Flamenco sono contemplate: Tiento, Fandango e Buleria. I Tientos danzati e cantati nel disco, sono i più antichi esempi del “Tango Flamenco” da cui nasce il Tango moderno. I Fandangos sono di due tipi: l’attuale danza popolare tipica di Huelva e la versione più tradizionale nella quale le mani prendono il posto delle nacchere e l’hand-clapping, lo schioccare delle dita e il ticchettio dei talloni sono integrati con il canto. Le Bulerias sono le native danze gipsy. Difficili e intricate, rappresentano l’attualità del talento Flamenco. Ogni strumento entra separatamente: prima lo schioccare delle dita, a seguire l'assolo di chitarra e poi il battito delle palme delle mani, il cosiddetto off-beat o counter-tempo. Finalmente dopo l’ingresso delle voci è il turno del battito dei talloni. Solo a questo punto la danza è nel pieno dello swing. In questa progressione, in un contesto di musica poliritmica ma scarna ed essenziale, il Paris non sembra andare in affanno. La naturalezza non raggiunge ancora livelli di eccellenza e le battute dei talloni sono esili e non producono quel riverbero secco e così devastante da dare l’impressione che le tavole del palco stiano per fratturarsi. Questo toglie un po’ di energia a tutto l'insieme, sottraendo ai brani quell’aura percussiva estatica e da stato di trance che contraddistingue la musica Flamenco. Le voci sono profonde e ben collocate. La timbrica delle chitarre è abbastanza coerente, pur senza restituire con accuratezza la potenzialità delle risonanze dei legni e delle manifatture di liuteria. Si conferma un’eccellente estensione della scena, ben oltre i limiti esterni dei diffusori. La registrazione è autentica, in presa diretta, priva di overdubbing e altre diavolerie mistificanti. Il giradischi sembra gradire, l’ascoltatore ancora di più.
L’Oracle Paris non è certo il tipo di lettore analogico che prediligo. Adoro le grandi masse, i motori sovradimensionati, i piatti pesanti che appena avviati continuano a girare per inerzia. I modelli entry della Micro Seiki pesavano un paio di decine di chili. Sono riuscito a far suonare un Michell Orbe solo dopo averne appesantito la base con oltre venti chili di acciaio e il motore di una decina. Insomma, credo fermamente che la consistenza fisica delle parti di un giradischi sia fondamentale per mettere una testina in condizioni di tracciare i solchi in maniera fedele, dinamica e naturale. Il Paris, invece, punta tutto sui materiali e sull’agilità e, posso testimoniare, raggiunge dei risultati apprezzabili in termini di riproduzione.
L’ascolto si conferma gradevole con tutti i generi, con buona coerenza sonora e musicale. Purtroppo il suo costo non aiuta certo ad annoverarlo tra le macchine abbordabili, mettendolo fuori da eventuali giochi di concorrenza. Ma è comunque un giradischi e questo mi basta per volergli un po’ di bene.
Caratteristiche dichiarate dal produttore:
Tipo: giradischi semiflottante
Trasmissione: a cinghia
Motore: AC sincrono
Alimentatore: esterno da 24 a 28VDC/500mA Din a cinque poli
Velocità: 33/45 giri regolabile
Dimensioni: 475x150x363mm LxAxP
Peso: 7kg
Costruzione: Made in Canada
Distributore ufficiale Italia: al sito de Il Tempio Esoterico
Prezzo Italia alla data della recensione: 4.900,00 euro senza braccio
Sistema utilizzato: all’impianto di Giuseppe "MinGius" Trotto