È nato il giorno di Natale, Jimmy Buffett, nel dicembre del ’46. Il destino gli ha riservato molte sorprese e le soddisfazioni di una vita piena e gratificante. Non solo musicista ma anche attore, scrittore, produttore e imprenditore. Inoltre, la fortuna ha avuto un occhio benevolo nei suoi riguardi, salvandogli la vita dopo un incidente aereo nel 1994 e ripetendo i suoi offici nel 2011 dopo una rovinosa caduta da un palcoscenico. Un sogno americano avveratosi a tutto tondo, un amore per i Margarita, le spiagge assolate dei Caraibi e le barche a vela, ma anche un certo talento creativo, che lui ha fatto fruttare come meglio poteva. L’aria simpatica e un’indubbia capacità compositiva gli ha procurato uno stuolo di fedelissimi supporter che lui ha soprannominato Parrotheads. Ed è proprio a questi ultimi che Buffett si è rivolto durante quest’anno pandemico, chiedendo loro di organizzare un elenco di sue canzoni “minori” da includere in un nuovo disco e che sarebbero poi state rivisitate e riarrangiate.
Songs you don’t know by heart nasce appunto così, tra un lungo isolamento forzato e la vicinanza virtuale del suo pubblico, che non ha mai smesso di amarlo. Così i brani selezionati si concentrano soprattutto attorno a una decina d’anni, quelli che l’hanno accompagnato lungo l’arco dai ’70 ai primi ’80. Folk singer, abile narratore, già amico del meno fortunato Jim Croce e ammiratore di James Taylor, Buffett ha definito ironicamente la sua musica come un “ubriaco rock ’n’ roll caraibico”, anche se in realtà ha sempre dimostrato grande lucidità, soprattutto nei testi, e una strategica capacità di strutturare le sue canzoni in modo semplice ma efficace. Le sue regole compositive sono chiare: accordi lineari, tre o quattro per ogni composizione, niente abbellimenti inutili se non gli essenziali cromatismi e soprattutto accompagnamenti ritmici latinizzanti con tanta tin-drum. L’etichetta di “autore di country music” gli va in realtà un po’ stretta. Buffett è uno storyteller, le ballate presenti in questo disco hanno anche un retrogusto alla Dylan, incertezze vocali comprese. Le quindici tracce di queste Songs sono realizzate in modo spartano, con pochi strumenti aggiunti. Oltre alla sua chitarra troviamo Mac McAnally e Peter Mayer, che lo sostengono con altre chitarre e un mandolino, e le percussioni di Erik Darken, più una fugace apparizione di Matt Rollings alla fisarmonica.
Già il pezzo di apertura, I have found me a home, mette in chiaro la rappresentazione tutta acustica dell’intero lavoro. Una canzone gradevole, facilmente memorizzabile, con un bell’assolo di chitarra prima del finale. La seguente Woman goin’ crazy on Caroline street, scritta a quattro mani con Steve Goodman, sembra uscire da un’idea alla Willie Nile, con quell’andamento da ballata urbana, anche qui stigmatizzata da un ottimo assolo chitarristico. Banaluccia The captain and the kid, sulla quale non vale molto la pena commentare. Più ritmo nella ballata seguente, la graziosa Delaney talks to statues, così come nell’ambito delle carinerie si colloca Twelve volt man, dove appare il mandolino a ricamare nel sottofondo. Si entra così nel tipico 2/4 del country più classico con Peanut butter conspiracy, divertente ma leggerino. A ritmo di valzer la seguente Something so feminine about a mandoline e siamo ancora in pieno country & western: non dimentichiamoci che Buffett ha iniziato la sua carriera di musicista giusto a Nashville. Si torna verso la ballad pura con Love in the library, canzone dolce che entra nel cervello con tutti i crismi dell’orecchiabilità, a mezza strada tra James Taylor e Paul Simon. Una melodia un poco più complessa ci accompagna in Chansons pour les petit enfants che mi ha ricordato le filastrocche intriganti di Cat Stevens prima della svolta islamica, non fosse altro per l’apoteosi del mandolino che suona quasi come un bouzouki greco. Forse troppo zucchero in The night i painted the sky, ma la fisarmonica e la chitarra s’abbracciano in un accattivante commento un po’ svagato e sognante. Cowboy in the jungle lascia indifferente il mio cuore duro, mentre meglio va con Little miss magic, classica ballatona alla Eagles, per intenderci, dalla struttura semplice e piacevolmente prevedibile. The cup chalice dice e non dice, ma non è così con il penultimo brano della raccolta, Tonight i just need my guitar, dove sembra di ascoltare James Taylor nella prosodica di Buffett, oltre che nell’impostazione della scrittura. Chiude l’autore tutto solo, voce e chitarra, in un brano molto dylaniano a cominciare dal titolo Death of an unpopular poet.
Un disco estremamente piacevole, alfine, tutto acustico, con una venatura malinconica contenuta, com’è nella natura di Jimmy Buffett, anche se l’aspetto che risalta maggiormente è quello più esuberante edottimista. Del resto, Boats, beaches, bars and ballads, un disco del ’92, è una precisa dichiarazione identitaria a partire dal titolo. Gli riconosciamo, quindi, tutta la coerenza possibile. Né possiamo dubitare, dopo una trentina di pubblicazioni discografiche, della sua solida etica professionale. Infatti, alla domanda di un fan che gli chiedeva se non sentisse un po’ d’imbarazzo a suonare, in periodo pandemico, in teatri giocoforza semivuoti, Buffett ha risposto così: “Ho suonato in bar dove non si vedeva nessuno tranne i baristi e le cameriere. Se sei un artista che non ama il proprio lavoro allora non potrai mai capire che non è importante se ci sono due persone o duemila ad ascoltarti. Loro avranno comunque lo stesso spettacolo”. Parola di Jimmy Buffett.
Jimmy Buffett
Songs you don’know by heart
CD Mailboat Records 2020
Reperibile in streaming su Qobuz 96kHz