Massimo Chiarella Quartet | Live at enotecalatorre

10.07.2024

Che cos’è il jazz? L’immenso pianista Bill Evans ebbe a dire: “Jazz is a How, not a What”. Letteralmente può tradursi dicendo che il jazz è un “come”, non un “cosa”, ma questo concetto, apparentemente semplice, contiene un significato intrinseco molto più profondo anche di un’accurata analisi semantica. Evans voleva esprimere l’idea che definendo il jazz “what” gli avrebbe attribuito una patente di staticità tutt’altro che congeniale, essendo quella musica un linguaggio espressivo e, di conseguenza, dinamico, perché indissolubilmente congiunto con l’individuo, che ne fa un’interpretazione culturale all’interno di una comunità di appartenenza. Questa energia evolutiva si scatena e diventa inarrestabile quando si incontrano individui appartenenti a diverse comunità culturali. Il jazz nasce da una relazione tra la cultura africana e quella europea avvenuta nel Nord America degli Stati Uniti, terra straniera per entrambe. Diventa così molto difficile offrire una definizione sulla natura del jazz, quando questo linguaggio è stato soggetto – notare bene, non oggetto – di trasformazione ogni volta che è venuto in contatto con una cultura sconosciuta. Ne è testimonianza la sempre accresciuta presenza di strumenti, quali la kora, l’oud, la tambora, il sitar, che non si possono certo annoverare tra quelli delle origini, come pure l’assimilazione di soluzioni elettriche o elettroniche – pensate solo a Bitches Brew – che ne hanno sovvertito i pattern compositivi.

 

Questa lunga premessa ci aiuta a costruire un’idea su quello che è il jazz. Io aggiungo che è la forma d’arte più importante del ‘900, ma è un’opinione personale. Se, mentre su cosa/come sia abbiamo qualche certezza, non ne abbiamo alcuna sul dove vada. Esistono invece indizi certi sul dove si fermi. Il Friuli Venezia Giulia è una delle terre dove il jazz fa tappa fissa, anzi, dove ha messo forti radici. Del jazz in salsa friulana ho già parlato in articoli precedenti, in particolare nelle recensioni del libro Diario di un autodidatta di U.T. Gandhi qui, o ancora dei dischi di Daniele D’Agaro e Mauro Ottolini qui e qui. Senza dimenticare che in questa regione così riservata – che mi auguro di poter tornare a visitare presto – sono passati e continuano a transitare e soggiornare talentuosi musicisti sia italiani che internazionali. Sarà certo per i luoghi, per il buon cibo, per i tajut di vino che girano indisturbati tra i tavoli di locali e osterie, sarà per i festival che affollano i cartelloni stagionali, ma la verità vera è che il polo di attrazione di questo fenomeno di fermento artistico sono gli studi Artesuono di Cavalicco, in provincia di Udine, centro di registrazione e produzione di eventi e dischi pluripremiati, riferimento imprescindibile di etichette prestigiose, ECM tra tutte, oltre a presenza prestigiosa in contributi e partecipazioni importanti in opere di valore mondiale, tra cui spicca I/O, il recente lavoro di Peter Gabriel. Ora possiamo presumere, ne sono testimoni i risultati, quello che può accadere quando l’Ing. Stefano Amerio mette a disposizione di un musicista la sua esperienza e la dotazione tecnica e strumentale dei suoi studi. Più complicato è immaginare gli scenari quando all’interno del connubio si insinua un audiofilo di lunga data, che vuole entrare nel campo della registrazione, avendo in testa un progetto di produzione di un lavoro discografico. Dico questo perché l’audiofilo/musicofilo navigato, nel suo infinito percorso di ascolti, ha sviluppato un rapporto tra udito e psiche talmente patologico che non si accontenterà mai di una buona canonica registrazione. Non potrà mai essere moderato sulla materia, perché conosce gli aspetti dell’incisione su cui agire ossessivamente al fine di riportare fedelmente l’evento musicale nell’alveo casalingo, laddove un sistema Hi-End sarà chiamato a riprodurne il rapporto tra tempo e spazio, la dimensione scenica, le micro e le macro-dinamiche, i dettagli, la timbrica e, da protagonista assoluta, la naturalezza. L’audiofilo di cui parlo è Roberto Rocchi, firma giornalistica prestigiosa di riviste specializzate, ultima ReMusic, oltre che amico di cui sento molto la mancanza, avendo egli deciso di trasferirsi da tempo proprio in Friuli. Ebbene Roberto ha co-fondato con Antonio Sarcinelli Postiglione l’etichetta discografica Enotorre Records, per la quale è uscito il primo lavoro in edizione limitata di 501 copie. Si tratta del CD Live at enotecalatorre del Massimo Chiarella Quartet, Jazz Series, happening live catturato presso il Ristorante/Enoteca La Torre di Spilimbergo, in provincia di Pordenone, già teatro di una lunga serie di eventi dal vivo. Io sono molto onorato del fatto che Roberto mi abbia interpellato per chiedermi se volessi scrivere di questo disco e, ovviamente, ho accettato con entusiasmo, con il risultato che la copia n° 51 del CD sta girando proprio mentre scrivo.

 

Massimo Chiarella Quartet - Live at enotecalatorre

 

I componenti del gruppo sono Massimo Chiarella alla batteria, Danilo Memoli al pianoforte, David Boato alla tromba e Riccardo Di Vinci al contrabbasso. Ora non vorrei soffermarmi sulle carriere, le attività e i curriculum dei musicisti del gruppo, sarebbe una ripetizione di quanto scritto dettagliatamente nel recente comunicato stampa che ReMusic ha pubblicato nella sezione Novità ed eventi qui, dove potrete approfondire le conoscenze e le informazioni. Vorrei invece parlare di questo lavoro dal punto di vista dei contenuti artistici e sonori. Piuttosto voglio dirvi che, nella storia della musica jazz, ogni etichetta ha assunto un carattere peculiare e distintivo, tanto che l’appassionato sa bene con quale categoria di artista avrà a che fare se acquista un disco della Blue Note piuttosto che della Contemporary o della SteepleChase. Ancor più è consapevole dello stile di registrazione e incisione tipico di ognuna delle label. Ovviamente l’Enotorre Records è una neonata e non ha trascorsi, ma sono gli artefici del progetto che ne hanno di trascorsi e giocano a trincerarsi timidamente dietro la definizione di “progetto coraggioso, quasi un sogno”. L’intravisione di quali strade si intenda percorrere per connotare la proposta artistica si palesa nelle dichiarazioni perentorie: “La Enotorre Records si propone come etichetta discografica dedicata agli appassionati audiofili strizzando l’occhio anche alla qualità artistica, facendo luce sul vasto palcoscenico di musicisti jazz del Nord-est Italia”. Vi invito a non interpretare questa dichiarazione come una forma di chiusura mista a snobismo della serie “meno siamo e meglio stiamo”, la rinomata nicchia. Conoscendo bene il produttore, posso assicurare che sarebbe felicissimo, come lo saremmo anche noi, diciamo così, addetti ai lavori, se la platea di coloro che “ascoltano” la musica diventasse maggioranza, riducendo a nicchia la minoranza di coloro che invece, senza speranza di ravvedimento, la musica la “sentono” e basta.

 

A fronte della ipotetica domanda di cosa si intenda per Alta Fedeltà, una delle tante risposte sarà certamente: “la pratica di ricreare/riprodurre in ambito casalingo un evento di musica come se fosse dal vivo, catturato e fissato su un supporto adeguato proprio nel momento esatto in cui l’evento stesso prende vita”. Il lavoro discografico di cui parliamo è la rigorosa trasfigurazione di questo concetto, ulteriormente evoluto. Intanto c’è un quartetto jazz, di altissimo livello, che suona dal vivo in una dimensione da club e come premessa non c’è male. Segue la scelta artistica, e ne parleremo dopo. Quindi è il turno dell’opzione tecnologica. Ad audiofilo/musicofilo esigente deve corrispondere una registrazione altrettanto audiofila. La maggior parte delle uscite discografiche dei nostri tempi sono frutto di una drastica post-produzione fatta di mixaggi, sovraincisioni e trattamenti del suono tanto laboriosi, asincroni e delocalizzati, che i musicisti potrebbero anche non incontrarsi mai nello stesso studio. Nel caso del nostro live, al contrario, viene riposta estrema attenzione alla fase di pre-produzione, da intendersi come certosina attività di abbinamento e posizionamento dei microfoni con annessa messa a punto del livello ideale di registrazione, al fine di restituire la dinamica, la pressione sonora, i dettagli e le armoniche degli strumenti in modo realistico e naturale, nella consapevolezza che resteranno inviolate anche nella fase di missaggio e masterizzazione finali. La strumentazione tecnologica è veramente impressionante. Per la registrazione sono state selezionate le elettroniche Merging Technology Horus + Anubis, sistema a 24bit/96kHz, probabilmente la massima autorità nel campo della tecnologia digitale applicata alla musica. Mi piacerebbe portarmi un Merging a casa, rappresenta un must anche per un maturo analogista come me. Per la verifica di qualità del livello ottenuto sono state coinvolte le aziende Omega Audio Concepts e Da Pieve Hi-Fi, che hanno messo a disposizione i propri sistemi audio. Sentite invece la scelta dei microfoni. Per il locale e la presa ambientale ne è stata fissata una coppia. Il primo è un Neumann USM69 in configurazione X-Y, ovvero con diagramma polare a cardioide e un’angolazione tra 90° e 110° con le capsule coincidenti al fine di ottimizzare la ripresa stereo. L’altro è uno Shoeps MTSC64 in configurazione ORTF, acronimo di Organization Radio Television Francaise, soluzione tecnica di brevetto francese, che contempla il piazzamento di due microfoni le cui capsule distano circa 17 cm l’una dall’altra, in coerenza con la distanza che separa le orecchie umane, stavolta inclinati tra 90° e 110°, esattamente come la media dei padiglioni auricolari. Veniamo agli strumenti. Alla tromba è stato abbinato un AKG The Tube con valvola 6072 RCA. Al piano una coppia matchata di Shoeps CMC6/MK4. Il contrabbasso viene servito da un microfono principale Neumann U87AI e, al ponte, uno Shoeps CMC6/MK2. Per finire, la batteria, che viene assistita da una corte di microfoni. CAD E100 MK4 per la grancassa. AKG C451 vintage per il rullante superiore e Shure SM98D per l’inferiore. Audio Technica AE3000 per i tom. Si finisce con una coppia panoramica di Shoeps CMC6/MK21 in configurazione A-B, due microfoni omnidirezionali a distanza variabile con la dimensione della sorgente in rapporto 3:1, e uno Shoeps CMC6/MK4 per l’hi-hat o charleston che dir si voglia.

 

Non sempre abbiamo la certezza che una registrazione dal vivo sia, in termini di qualità, direttamente proporzionale al livello di dotazione tecnologica utilizzata, perché ci sono variabili molto meno controllabili rispetto a ciò che si può fare in studio. Basti pensare solo alla presenza umana o alla conformazione dell’ambiente. Ma bisogna considerare che a questo live ha lavorato il trio Amerio-Rocchi-Postiglione. Con la perizia, la competenza, l’abilità tecnica e la sensibilità audiofila che si ritrovano non potevano certo fallire la prova. Il disco, già da un primo superficiale ascolto, mette in evidenza alcune peculiarità sonore. Il sound è molto levigato, setoso e, armonicamente, è una vera delizia. La tentazione di riascoltarlo anche più volte è fortissima, proprio perché trasmette un messaggio di tranquillità e divertimento puro. Non compare alcuna asprezza nella riproduzione, anche nei passaggi dinamicamente più complessi, in virtù di un equilibrio timbrico e tonale molto suadente. Nessuno strumento prevarica l’altro, l’immagine stereo è perfetta e il palcoscenico è decisamente arioso. Risultano discreti anche il clapping e il brusio della sala, ma non per questo sono meno partecipativi. Sembra quasi che i musicisti si siano calati perfettamente nel progetto generale con una spiccata sensibilità acustica e non solo artistica, il che non è per nulla scontato quando si incide un disco.

 

Andiamoli a conoscere questi strumenti. Massimo Chiarella suona una batteria Gretsch Vintage, Danilo Memoli un pianoforte Yamaha Upright U3, David Boato una tromba Savut DB Jazz e Riccardo Di Vinci un contrabbasso Romanian Lutherie. Non sono strumenti proprio comuni. La tromba Savut è costruita artigianalmente e l’accurato studio delle forme e dei materiali ne fa un oggetto con delle qualità timbrico-espressive uniche. Anche la batteria Gretsch ha un suono caratterizzante e poi è la preferita di Phil Collins. Insomma, tutto questo per ribadire che non è stato trascurato il minimo dettaglio logistico, tecnologico, acustico o strumentale.

 

Resta da analizzare l’aspetto artistico. Sarebbe esagerato affermare che questo lavoro discografico è una pietra miliare. Innegabilmente non scrive la storia del jazz. Ma in parte la racconta. Attraverso le sette tracce si snoda un percorso musicale storico, anzi, oserei dire leggendario. Si parte con Jerome Kern, uno dei più grandi compositori americani di sempre, vissuto a cavallo tra ‘800 e ‘900, autore soprattutto di musica per teatro, musical e cinema. La scelta è ricaduta su Nobody Else but Me, un brano, potremmo definirlo, di “relaxing jazz for adult”, scritto nel 1946 e interpretato da decine di gruppi e cantanti tra cui spicca Tony Bennett. Il combo ne fa una versione meno crooner, nel senso che, basandosi su un arrangiamento strumentale, partendo dalla forma canzone originale, sovverte un po' le regole delle sezioni. Piano, basso e batteria si alternano nei ruoli di ritmica e solista, laddove, pur nella prevalenza del pianoforte nel tracciare e sostenere la linea melodica, si ritagliano ognuno degli spazi nei quali lasciano libera la massima espressività solista, per ritornare poi nel rango di supporto ritmico. Il risultato è eccellente in termini di briosità rispetto alla rilassatezza dell’originale. Ascoltare il modo in cui Chiarella usa percuotere la batteria, così carezzevole e a sequenza di colpi velocissimi, quasi a sfiorare le pelli, è un diletto.

La successione storica delle tracce prosegue con Webb City di Bud Powell. La prima registrazione di questo brano risale anch’esso al 1946. Powell è uno dei pionieri del be-bop ma estende la sua influenza sul pianismo moderno. La sua personalità oscura e problematica si riflette, come accade per tutti gli accoliti del passato, nella sua musica. Le regole del bop impongono di bruciare letteralmente tutte le soluzioni estetiche e stilistiche in maniera funambolica all’interno di intervalli temporali velocissimi. Una eventuale distensione di un assolo metterebbe automaticamente una composizione fuori dal movimento. Il nostro quartetto ne ha piena consapevolezza e allora ecco che la musica si fa agitata, nervosa: strumenti in burrasca mi verrebbe da dire. Più che quattro strumenti che suonano sembra di ascoltare quattro persone che dialogano animatamente tra loro intorno a qualche argomento sul quale ognuno vuole avere ragione. Ascoltate bene la tromba. A parte la straordinaria timbrica, in alcuni momenti sembra che parli, ha le stesse inflessioni della voce. Il piano tenta una risposta e allora la tromba alza il tono e stride volutamente sugli acuti. Il basso commenta discreto tutti i fraseggi, come a dire “vi ascolto ma non mi sposto”. A un certo punto la batteria silenzia tutti e inizia il monologo, molto articolato, usando tutti i mezzi che possiede, in un turbinio di bacchette che volano tra tom, rullante e piatti con una precisione da orologio atomico. Questo è uno dei passaggi in cui la timbrica Gretsch emerge in tutte le sue sfumature, oltre ad essere un flash sulla qualità eccezionale della registrazione.

Duke Ellington è un paio di generazioni più anziano di Powell, ma Oclupaca, il brano seguente in lista sul nostro CD, viene registrato nella prima versione nel 1968, per essere completato nel 1970 e poi incluso, era l’anno 1972, nell’album in studio Latin American Suite. L’opera è stata abbastanza sottovalutata, mentre è la testimonianza di come le contaminazioni afrocubane fossero care a Ellington e alloggiassero nella profondità del suo linguaggio. La scrittura è modellata per orchestra, ma essendo l’architettura fondamentalmente in chiave blues, si apre a una vasta possibilità di interpretazioni o riduzioni. La tonalità è in LA♯/SI♭ e modalità minore, mentre il tempo è di 137 BPM. Nelle versioni originali o nelle rivisitazioni la fa sempre da protagonista la sezione fiati, tant’è che anche nelle riproduzioni video gli ottoni sono sempre collocati al centro dello schieramento. Fa capolino anche un certo ammiccamento al ballabile, soprattutto in alcuni passaggi che sfiorano lo swing, ma non è una composizione scatenata. Riscriverla per quartetto potrebbe apparire proibitivo, ma Massimo, Danilo, David e Riccardo ci riescono alla grande. Il pathos iniziale, leggermente jungle style, viene ricreato facendo vibrare in continuità la corda MI del basso con l’archetto. Su questo sottofondo incessante e solido si innestano sprazzi di piano e piccole ma incisive rullate di batteria ad alimentare il clima dell’attesa. Poi lentamente la musica si distende, entra la tromba e inizia il blues, riflessivo e interrotto da piccoli stop and go dopo i quali si dipana un arrangiamento diverso, con il piano che subentra alla tromba nel tracciare il tema, meno sincopato, quasi liquido, a volte percussivo. La batteria tiene il tempo con riserbo in una sorta di poliritmia. Verso i tre quarti del brano finalmente un passaggio solista del basso precede l’apoteosi percussiva. Una gragnuola di colpi in stile “rolling stones”, inteso come pietre che rotolano, non mi riferivo al gruppo. Nel finale gli strumenti vanno spegnendosi come se fossero sfiancati e sfumano nel finale dissolvendosi tra gli applausi della platea.

Con un salto temporale e anche stilistico si procede con Waltz for Ruth, composto nel 1997 da Charlie Haden con Pat Metheny. Il brano è dedicato alla moglie di Haden, suonato in ¾, come si addice ai valzer, su un avvio in Solm7. Finalmente una traccia in cui il contrabbasso diventa il fulcro della composizione. Si esprime con un andamento quasi danzante costringendo gli altri strumenti a ritagliarsi spazi nei meandri del suo moto, a condizione però di tenere un low profile. La timbrica della Liuteria Romanian esplode in tutta la sua naturalezza lignea e cordofona. Il basso è voluminoso e la sua forte presenza inibisce qualunque esuberanza degli altri strumenti, che sono partecipativi e dialoganti, ma sempre misurati, fatta eccezione di un paio di strappi tentati da tromba e batteria nella parte finale, sempre però funzionali alla pacatezza romantica del brano.

Le citazioni terminano con Dan Kinzelman, un sassofonista statunitense quarantenne, residente in Italia dal 2005, noto per una particolare abilità nell’utilizzo di tecniche di respirazione che gli consentono di tenere una nota in sospensione per svariati secondi fino al limite della resistenza fisica. La composizione scelta è Visitor, all’ascolto della quale sembra di assistere a una performance in stile più europeo, quasi scandinavo, fatto di evocazione di grandi spazi, visioni e orizzonti. A emulazione dell’autore, lo stile espressivo subisce un rallentamento e le note vengono tirate al massimo, come se dovessero superare tutti i limiti fisici e prospettici per arrivare il più lontano possibile. Il tocco dei tasti, delle pelli e delle corde si fa più greve e la registrazione riesce a cogliere questa estensione tridimensionale di ogni singolo accordo o fraseggio.

Ci sono ancora in lista due brani, gli unici i cui autori fanno parte del gruppo. Vuelta Carnero è stato composto da David Boato. Inizia con una cadenza tribale e ipnotica per poi crescere di intensità, facendo deflagrare tutte le sfumature sonore derivanti dalle infinite influenze musicali assorbite durante le collaborazioni con musicisti che vanno da Ares Tavolazzi a Franco D’Andrea, da Giorgio Gaslini a Enrico Rava e Terence Blanchard. La sua tromba assume un’espressione molto lirica, in una sorta di conflitto temporale con il resto del gruppo che mantiene una ritmica turbinosa e insistente, tanto da costringere la Savut ad alzare la frequenza delle note fino allo strapazzamento. Un assolo potente di contrabbasso pilota la fine del pezzo verso un ammaraggio acustico morbido e delicato.

La settima e ultima traccia, Ode to Elvin, che poi è la prima della tracking list, è anch’essa una composizione autoctona. L’ha scritta Danilo Memoli per onorare il grande Elvin Jones nel giorno della sua morte. Un pianista che venera un batterista è alquanto singolare, ma quando il batterista si chiama Elvin Jones tutto si spiega. La drammaticità dell’evento influenza il tono del brano, che risulta austero e malinconico come solo un blues in minore può essere. Tende però a divincolarsi dalla forma strofica di dodici battute tipica del blues e si percepisce una coralità consolatoria che si sforza di innescare lampi di vitalità in omaggio a un artista che il tempo proclamerà immortale. La composizione ha uno stile classico, dove l’interplay è ai massimi livelli e dove viene riservato uno spazio solista a ognuno dei musicisti. La registrazione non presenta sbavature, con una chiarezza eloquente che la eleva a status di standard.

 

Dopo infiniti e attenti ascolti, posso tranquillamente concludere che Live at enotecalatorre è un lavoro discografico eccellente, basato su un’idea di fondo molto efficace e stimolante. Gli obiettivi che la produzione si era prefissa mi sembrano pienamente raggiunti e l’orientamento all’audiofilo è tutt’altro che una strizzatina d’occhio. Io mi terrò stretta la mia copia n. 51 del CD con l’auspicio che l’etichetta prosegua con benemerenza la sua attività di sostegno a musicisti e gruppi veramente talentuosi come lo è il Massimo Chiarella Quartet. Ci vorrebbe un’Enoteca La Torre ogni decina di chilometri…

 

Gallery fotografica a cura di Gianni Cesare Borghesan

 

Massimo Chiarella Quartet

Live at enotecalatorre

CD Enotorre Records

In primo piano, Massimo Chiarella alla batteria, photo credit Gianni Cesare Borghesan
In primo piano, Massimo Chiarella alla batteria, photo credit Gianni Cesare Borghesan
Danilo Memoli al pianoforte, photo credit Gianni Cesare Borghesan
Danilo Memoli al pianoforte, photo credit Gianni Cesare Borghesan
David Boato alla tromba, photo credit Gianni Cesare Borghesan
David Boato alla tromba, photo credit Gianni Cesare Borghesan
Riccardo Di Vinci al contrabbasso, photo credit Gianni Cesare Borghesan
Riccardo Di Vinci al contrabbasso, photo credit Gianni Cesare Borghesan

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