Il numero 66 che titola l'ultimo lavoro di Paul Weller non si riferisce romanticamente alla Route 66 di quasi quattromila chilometri che attraversa gli Stati Uniti da Est ad Ovest. Più prosaicamente l'accento simbolico è posto sull'età dello stesso Weller, magari con qualche riferimento alla musica giovanile dei tardi anni '60 a cui il musicista britannico ha sempre ammesso di essersi ispirato. Se i Beatles del Sergente Pepe, in quei tempi poco più che ventenni, con disarmante ironia cantavano in punta di clarino When I'm Sixty-Four, in questo caso possiamo ben dire che il limite è stato superato. Non più la proiezione di un ipotetico futuro tipo “many years from now”, ma la certezza di essere scivolati – non si sa mai come – nell'età del tramonto. E per un tagliente poeta del giovanilismo come è stato Weller, passando dalle aspre triangolazioni con i Jam alle sofisticate atmosfere jazzy degli Style Council fino alle numerose prove soliste – diciassette con quest'ultima – dev'essere stato forse ancor più duro assorbire il carico psicologico dell'inevitabile invecchiamento.
A proposito di Beatles, il design di copertina è stato affidato proprio all'ideatore di quella dell’album Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, cioè Peter Blake, anche se il risultato, in questo caso, mi sembra meno memorabile.
Per quello che mi riguarda avevo lasciato Weller al suo illustre destino, disamorandomi dell'artista nella prima decade degli anni Duemila, stimolato da ben altri profumi e un po' deluso da una certa ripetitività dei suoi lavori, anche se tutti costruiti con decoro e assoluta onestà professionale. Ma questo 66 è mosso da un sentimento nostalgico che s'avvita senza pudore attorno agli abiti sempre eleganti dell'ultimo mod, con quella leggerezza di pensiero che sottolinea lo stato d'animo generale presente in questo lavoro. Un album meditativo che pare quasi voglia celebrare l'addio all'epoca del narcisismo di massa che aveva abitato gli anni '80, e lo fa attraverso una musica che sfiora atmosfere diverse toccando le influenze dei Kinks – ma meno sulfuree di quelle proposte da Ray Davies – di Bowie, degli stessi Beatles, di Bacharach e persino di qualche ritaglio dei Pink Floyd. Non mancano le autocitazioni verso il periodo degli Style Council, a cui dobbiamo comunque il ricordo di un pop assai meno fatuo di quello che veniva proposto serialmente quaranta – nota bene – anni fa. Le sonorità vanno spesso a frugare tra vecchie vibrazioni synth propriamente eighties, qualche momento di romanticismo tradotto con gli archi, ben arrangiati da Hannah Peel, e accenni rock di chitarra, innescando un sentimento quasi lounge e in definitiva molto gradevole. Diciamo che il piacere aumenta con gli ascolti, segno ineludibile di buona qualità, ma se vogliamo anche contrastante.
Come l'impressione di un ristorante che dia un buon servizio ma alla fine riservi un pranzo al di sotto delle aspettative. Il pop di 66 si rapprende attorno alla giostra dei ricordi ma c'è di buono che non viene rimosso nulla dalla coscienza, tutto viene soppesato sui piatti di una bilancia che non fa sconti. L'indiscussa personalità che abita il personaggio si propone con arrendevole semplicità e noi ci scopriamo ad accettare le sue proposte di buon grado, convinti dalle apparenti buone maniere dell'autore, anche se talora le composizioni vanno purtroppo a sconfinare verso rischiosi territori di inanità. Weller si presenta nei panni di multistrumentista, oltre che ovviamente di cantante, facendosi aiutare soprattutto ma non solo nella stesura dei testi da alcuni amici fidati, quali l’ex Oasis Noel Gallagher, Bobby Gillespie dei Primal Scream, Suggs dei Madness e Dr. Robert dei Blow Monkeys. Segnalo anche la steel guitar di Richard Hawley in un brano.
Del resto, se vogliamo proprio far tutti i conti, non abbiamo niente da rimproverare ad un artista che ha iniziato la sua carriera a 19 anni, non si è mai accontentato dei successi ottenuti e ha sempre lottato, prima e dopo l'89, anno in cui si sciolsero i fortunati Style Council, per non farsi prendere da inutili rimpianti, dismettendo i vecchi abiti non appena persuaso dall'esaurimento creativo delle sue passate esperienze.
Apertura d'album con la chitarra acustica di Ship of Fools, brano accattivante e implacabile nella sua semplicità ma per questo non meno denso sia di strumenti che di arrangiamento. Il testo pare orientativamente politico ma elasticamente adattabile a molte altre situazioni. Una ballata pop folk di pronta presa allietata sia dal vibrafono di Max Beesley – interessante figura, forse conosciuto più come attore e doppiatore piuttosto che come session man specializzato nelle percussioni – e dal flauto di Jeacko Peake.
Flying Fish apre in modo piuttosto deludente tanto da sembrare un brano di pura pop music adatta alla stagione estiva, però poi si riscatta aderendo a un tappeto di suoni sintetici ben gestito da Le SuperHomard e chiudendo con qualche nota di assolo chitarristico a cui provvede forse lo stesso Weller, concedendo qualche fremito rock in più.
Jumble Queen è ricco di fiati e di sferzate innescate dalle sei corde elettriche, in un magma che ricorda alcune impressioni targate Elvis Costello. Minimalismo soul con tanto di coretti e le stesse chitarre in evidenza.
Nothing si alza quasi una spanna da tutto il resto nonostante si proponga come una sorta di riesumazione del tocco di classe che fu degli Style Council. Suoni di moog che sembrano provenire da quel pianeta lontano, e sono di Steve Brown, un testo poetico come ad esempio “non avere nient'altro che l'altro...”, fiati ben azzeccati e dolcezze lounge con ritmica spesso usata in backbeat.
My best friend's coat è un valzer che sembra la dichiarazione d'un romantico militante quale in effetti, sotto sotto, è Weller stesso. Archi nobilitati dagli arrangiamenti della Peel, nata quando i Council erano già conosciuti e apprezzati in mezzo mondo, e dall'esecuzione della Britten Sinfonia. Ma qui funziona tutto, dalla melodia in ¾ ai cori e insomma, il clima è sognante e nostalgico al punto giusto.
A proposito di nostalgie, date un'occhiata, se ne avete voglia, al video che accompagna il brano seguente, il “quasi” struggente Rise-Up Singing, tra accompagnamenti d'archi soul alla Barry White e un mid tempo che sembra provenire da un outtake di Café Bleu del 1984. Gira che ti rigira, in quest'album si finisce sempre a parare da quelle parti...
In I Woke Up la partecipazione di Richard Hawley viene evocata non solo per l'uso della steel guitar in lontananza ma perché effettivamente questo brano sembra scritto da lui e gli stessi archi paiono modelli estrapolati dal suo genere.
A Glimpse of You rialza il tono dell'umore che a dire il vero s'era un po' afflosciato con il brano precedente. Però le cose non migliorano poi molto e la causa è forse l'eccessiva sovrabbondanza orchestrale che regala sì un velo d'eleganza ma piuttosto monocorde.
Sleepy Hollow se non altro dimostra un carattere più scanzonato e meno serioso, anche per l'apporto della coppia Beesley & Peake che si ripropone rispettivamente al vibrafono e al flauto, strumenti che offrono alla traccia l'idea di una petit musique dal profilo giocosamente infantile.
In Full Flight il coro femminile delle Say She She ci porta in clima soul con un lentaccio “mattonelliforme” che avrebbe potuto far la mia gioia di quand'ero adolescente. Però c'è un bell'incrocio tra chitarre, synth e glockenspiel che mantiene il brano in una stratosfera di analcolica leggerezza, sul quale si dondola la bella voce di Weller.
Soul Wondering sfodera un'agguerrita intensità mantenendo il brano ben bilanciato tra rock – belle le chitarre più l'organo – e R&B. C'è un po' di tutto in questo pezzo, ma sicuramente s'assiste a un incremento di tensione che davamo ormai per morto.
Chiude Burn Out, uno stranissimo brano d'ispirazione dichiaratamente “pinkfloydiana” che c'entra come i cavoli a merenda. Ma il solito Jeacko Peake s'immola per la causa con il suo sax tenore sorretto dai venti impetuosi degli archi.
In mezzo a tratti di spontanea limpidezza e sincerità affiora qualche scoglio a complicare la navigazione. Anche se non è una musica da cieli grigi, questa di 66, e nemmeno quella di un Ulisse dei nostri giorni condannato da perenne rimpianto, quello che raccogliamo da questi brani sono comunque note piene di consapevolezza, immerse in un pacato, generico melodismo e avvolte da una produzione solo in qualche caso prevaricante. L'album è comunque compatto, si fa ascoltare con scorrevolezza, soprattutto per quello che riguarda la prima parte. E poi Weller, che lo voglia o no – mi sa più no che sì – racchiude in sé il senso dell'eclissi di un intero immaginario, accesosi nella sbornia stilosa dei primi anni '80 e smorzatasi poi, coperto dal naturale appassimento di quelle mode musicali.
Paul Weller
66
CD semplice, Deluxe e LP
Disponibile in streaming su Qobuz 24 bit/44kHz e Tidal qualità max fino a 24 bit/192kHz