Premiata Forneria Marconi | I dreamed of electric sheep

10.12.2021

Tornare a interessarmi di gruppi come la PFM dopo tanti anni di lontananza da parte mia, sedotto dai profili più avventurosi del jazz e da altri modelli di rock “alternativo”, mi condiziona a un duplice atteggiamento. Piacere e orgoglio da un lato, un leggero disagio dall’altro.

Il sottile e un po’ nostalgico senso di piacere si lega senz’altro alla mia giovinezza, mi rimanda ai tempi eroici di Storia di un minuto, con quelle epocali impressioni di un settembre narrato nella sua affascinante epifania.

L’orgoglio era poter leggere sulle riviste specializzate di allora, come il mitico Gong, che l’italianissima Premiata Ditta aveva emozionato Gregg Lake al punto tale che quest’ultimo la volle trascinare con sé in Inghilterra alla corte di Pete Sinfield. La banda acquistò nel giro di poco tempo una serie di medaglie sul campo presso critica e pubblico inglesi prima e americani poi, terminando l’incetta di consensi attraverso una memorabile tournée negli States. E si era nel 1974, quasi cinquant’anni fa…

Il disagio si lega a un mio rapporto ambiguo con questa band. Se da un lato ho amato e mi ha sempre impressionato la consistente forma musicale del gruppo, dall’altro mi ha lasciato un po’ dubbioso l’ascolto dei testi che, tranne in qualche caso avvenuto con la collaborazione di Mogol, giudicavo talvolta troppo prevedibili. Nonostante la frequentazione con De Andrè, rimaneva poca sostanza attorno alla splendida prosa scarnificata dell’autore genovese e la Premiata non è quasi mai riuscita ad abbeverarsi adeguatamente a quella sorgente. O forse e più probabilmente la PFM è sempre stata maggiormente coinvolta dall’aspetto musicale rispetto a quello più specificamente letterario.

 

In questo ultimo lavoro creato con l’intenzione del concept album, I dreamed of electric sheep, titolo che rimanda evidentemente al romanzo di Philip K. Dick del 1968 Do the androids dream of electric sheep?, la PFM trova una sorta di relativo accomodamento tra parole e musica che funziona a corrente alternata e riesce bene in alcuni brani e meno in altri. Però la parte strumentale è sempre di gran livello, cambiano gli elementi del gruppo ma fortunatamente la qualità complessiva resta sempre molto alta.

La storia raccontata in questo album allude all’ipotesi che l’Uomo, in un futuro nemmeno troppo lontano, digitalizzi la propria vita al punto tale da trovarsi trasformato in una serie di dati e di numeri, abitando un futuro che è proprio il contrario dell’utopia fantascientifica in cui tutto va a finire per il meglio. Il rischio è che al posto della redenzione dell’umanità attraverso l’ossessione della connessione globale ci si debba aspettare un incubo distopico, una visione antiumanista in cui la macchina e l’androide prendano il posto dell’essere umano. Del resto, la copertina dell’album ci segnala una curiosa sovrapposizione, ma in linea con l’ermeneutica del progetto, dei volti tra Di Cioccio e di Djivas: un’evidente allusione alla creazione d’un umanoide, per lo meno dal punto di vista grafico.

 

Premiata Forneria Marconi

 

L’attuale formazione della PFM s’incentra su tre “vecchi” lupi di mare come Franz Di Cioccio a voce e batteria, Patrick Djivas a basso e tastiere, Lucio Fabbri al violino e alla viola. Inoltre, c’è Marco Sfogli alle chitarre, che ha preso il posto di Mussida, Alessandro Scaglione a piano e tastiere al posto di Premoli e Alberto Bravin come musicista aggiunto alle tastiere e alla chitarra acustica. Difficile definire il genere musicale, oggi come oggi, di questa band. Del resto, sarebbe troppo semplicistico affibbiarle solo l’etichetta scontata di “progressive”, data la varietà di spunti che è in grado di offrire, soprattutto in questo album. Si passa da momenti di rock quasi metallico ad altre parentesi più acustiche e altre ancora condite con effetti elettronici, passando da uno stile all’altro con grande flessibilità.

Sono stati editati due CD, uno in versione di lingua inglese e l’altro in italiano e naturalmente è a quest’ultimo su cui poniamo l’attenzione.

 

I dreamed of electric sheep - Premiata Forneria Marconi

 

L’inizio di Mondi paralleli è straniante, sinfonico per i primi momenti ma poi s’inserisce la band con piglio deciso, compenetrandosi con la parte orchestrale attraverso un’aggressiva chitarra e il supporto della tastiera, tanto che sembra veramente di essere tornati indietro nei ’70. È solo con il prossimo brano, Umani alieni, che Di Cioccio comincia a introdurre il canto. Un suggestivo intro di piano e un passaggio d’accordi con organo e chitarra, che ricorda l’attacco di I can’t tell you why degli Eagles, prepara il terreno a un’accelerazione ritmica in cui si mettono ben in evidenza ancora una volta organo e chitarra elettrica. Ombre amiche è un pezzo lento, scandito da un sottofondo di tastiere e colpi di timpano, molto ben costruito con ottimi incroci strumentali anche se, ahimè, il testo della canzone sembra un po’ tirato via. La grande corsa mi ha fatto tornare alla mente, sia nel testo che nell’approccio vocale e parlato, alcuni lavori di Franco Battiato. Il brano ha un bel tiro di chitarra elettrica distorta, seppur appaia in definitiva troppo frammentato. Atmospace è ritmo lento con Di Cioccio che dà colore alla sua voce, ma l’ombra di Battiato, anche per gli interventi di tastiera simil-moog e per il senso delle parole, aleggia continuamente. Pecore elettriche ha l’impronta della fusion, ben suonato, con basso e batteria che ne costituiscono il cuore pulsante. Il finale è molto tirato, metallico, con una bella sovrapposizione tra chitarra e tastiere. Peccato per il testo, assolutamente non convincente. Mr. Non Lo So possiede un simpatico ritmo swingante, alla Sergio Caputo dei tempi migliori. Il bel violino di Lucio Fabbri aiuta a mantenere un certo spirito di leggerezza e si propone con un velo di humor tanto da rendere alfine questo brano tra i più brillanti dell’album. Il respiro del tempo mi fa venire in mente Alice che canta il “solito” Battiato, tanto da farmi sospettare quasi una sorta di omaggio inconscio all’autore siciliano. Il ritmo è fisso su un 4/4 ben scandito e si ascoltano inserti orientaleggianti alla George Harrison. Tra una nota e l’altra si avverte il flauto di Ian Anderson, ospite illustre di questo brano e soprattutto la chitarra di Steve Hackett, leggi alla voce Genesis. Coro finale con invocazione alla Grande Madre Terra, un po’ ingenuo ma coinvolgente. Incomincio però a divertirmi sul serio solo con gli ultimi due brani, Transumanza e Transumanza jam. La ragione di ciò sta nel fatto che finalmente riesco ad ascoltare la Premiata in tutto il suo potenziale sonoro e strumentale e quello che arriva all’orecchio è un gran bel sentire, nel suo essere costituito esclusivamente dalla musica senza aggiunta alcuna.

 

Premiata Forneria Marconi 

È insomma una moneta a due facce questo lavoro siglato PFM. Da una parte la voglia di esserci con un suono puntuale, tecnicamente ben prodotto, armonicamente costruito in modo ottimale con tutte le tessere del puzzle a combaciare perfettamente l’una con l’altra. Dall’altra parte quello che a me pare essere una debolezza, cioè il valore incostante dei testi. Non si pretende la poesia – ma anche, perché no? – nemmeno una profondità filosofica che esuli dal semplice senso di una canzone. Basterebbe però una ricerca di costrutto verbale più accurata perché certe rime e certe immagini suggerite dai testi non mi sembrano adeguate né all’importanza storica e nemmeno al valore musicale complessivo di questa band.

 

I dreamed of electric sheep

Premiata Forneria Marconi

2LP/2CD Inside out Music 2021

Al momento reperibile in streaming solo su Spotify mp3/320kHz

di Riccardo
Talamazzi
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