Negli ultimi anni molti grandi autori internazionali hanno concordato con le principali major discografiche la cessione del proprio patrimonio musicale, e poco importa se del tutto o in parte.
Si parla tendenzialmente di artisti della seconda metà del Novecento, vere e proprie icone di noi audiofili e melomani agées: i Beach Boys, i Blondie, gli eredi di David Bowie, David Crosby, Bob Dylan, Chrissie Hynde dei Pretenders, i Killers, Barry Manilow, Stevie Nicks dei Fleetwood Mac, Paul Simon, Bruce Springsteen, Dave Stewart degli Eurythmics, Sting, Tina Turner, Neil Young…
Compaiono però anche nomi più giovani, come quelli degli Imagine Dragons e Shakira, o di diversa estrazione musicale, come nel caso del DJ e produttore discografico David Guetta.
L’elenco quindi si ingrosserà, questo è un trend economico destinato ad autoalimentarsi e consolidarsi: per emulazione, necessità od opportunità.
Sì, perché il momento storico è contemporaneamente interessante da ambo le parti, sia per chi vende e sia per chi compra.
Si tratta, inevitabilmente, di una marea, di una congiuntura storica positiva, quasi come si potrebbe avere, ad esempio, nel mercato immobiliare.
Sui motivi, a mio avviso anche perversi, di questo fenomeno, trovate qui e qui alcuni articoli non recentissimi ma insieme concisi ed esaustivi. In sintesi, e senza temere lo spoiler, sembra che il mercato discografico le stia provando tutte per fare business, guadagnare sempre più, garantirsi ulteriori fonti di guadagno, acquisire sicurezze per il futuro “nonostante se stesso” e le proprie dinamiche autofagocitanti.
Purtroppo, si tratta di movimenti enormi per capitali e logiche di mercato, con spinte assolutamente incontrollabili dai più, sicuramente non da noi piccoli utenti/clienti.
E sono pure legali: quindi, mettiamoci l’animo in pace e restiamo alla finestra, tanto non ci potremo fare nulla.
Bruce Springsteen
Un aspetto, però, mi ha colpito in questi giorni. Al di là del legittimo diritto a vendere e di quello ad acquistare, che sarà della musica che abbiamo conosciuto nella forma in cui l’abbiamo conosciuta? La domanda non è peregrina. Se io vendo qualcosa a qualcuno, questi ne potrà disporre come vorrà a suo piacimento. Anche trattandolo male, anche “rovinandolo”, secondo il mio punto di vista o quello del senso comune.
L’esempio che mi viene da fare per il nostro settore di competenza, riportando il tutto alla nostra passione, è quello di quando noi audiofili vendiamo un apparecchio, un diffusore o un componente Hi-Fi a chicchessia.
Magari l’abbiamo creato, è il caso degli autocostruttori, o semplicemente l’abbiamo acquistato da nuovo, amato, goduto e coccolato.
Poi, per qualsiasi motivo noi lo si abbia voluto vendere, alienare, spinti dal lucro o dal bisogno, lo abbandoniamo nelle "mani sbagliate" e, tipicamente, lo scopriamo troppo tardi, pentendoci amaramente.
Ed è in questa occasione, quando rivediamo il nostro vecchio “oggetto d’amore” trascurato, impolverato se non anche graffiato, usato in modo sbagliato o male accoppiato, magari pure grossolanamente riverniciato, tanto per soddisfare l’istinto bassamente decorativo del "famolo nuovo", ci rendiamo conto di avere probabilmente sbagliato, e di molto.
Mutatis mutandis, nel caso di cataloghi musicali conosciuti e apprezzati da buona parte della popolazione mondiale, perché questa è la dimensione e la misura del successo ottenuto dagli artisti in questione, cosa impedirà o impedirebbe di alterare o snaturarne il messaggio, ripeto, nella forma in cui l’abbiamo conosciuta e, aggiungo, nell’intenzione originale?
Una canzone di protesta potrà essere edulcorata? Si potranno riscriverne i testi e modificarne il messaggio? I destinatari di una canzone d’amore potrebbero diventare in una nuova versione i proprietari di un’azienda di armi, con tanto di nomi e cognomi ed esplicito messaggio pubblicitario? Si potranno alterare, storpiare e distorcere le forme e i contenuti
Qui, insomma, non stiamo parlando di semplici cover, come siamo – educatamente – abituati a pensare e sentire.
Di omaggi o reinterpretazioni dell’autore X da parte dell’esecutore Y.
Qui si parla di dimenticare, riscrivere o cancellare la storia.
E, se pensate che io stia esagerando in apprensione, considerate quanto è successo a uno come Paul McCartney, non esattamente uno qualsiasi.
Per sua stessa ammissione la comparsata nel singolo FourFiveSeconds di Rihanna e Kanye West lo ha avvicinato a milioni di nuovi fan – della cantante delle Barbados e non solo – che, semplicemente, non lo conoscevano…
Pensate che non sia possibile? Andate allora a contare i follower di alcuni miti della nostra generazione di baby boomers e degli equivalenti di quelli attualmente sulla cresta dell’onda: il confronto è impari, si parla normalmente di poche decine di migliaia contro milioni o decine di milioni…
Il rischio quindi è alto, perché ogni nuova generazione porta con sé i propri miti e tende a cancellare quelli delle generazioni passate.
Ma fino a oggi tutto è sempre stato condotto nei binari del rispetto e dell’ispirazione.
Tutti i musicisti devono qualcosa a quelli del passato e ad essi spesso si sono ispirati e li hanno riscritti e reinterpretati, se non addirittura “saccheggiati”.
Ora invece siamo esposti, secondo me, alla rielaborazione, omogeneizzazione e adulterazione autorizzata, visto che si tratta di utilizzo di materiali la cui titolarità, tecnicamente, "è stata spostata ad altro soggetto" perché appunto venduti, e non per l’avvenuto scadere di questi, che, almeno secondo le nostre normative vigenti, in Italia avviene dopo 70 anni dalla morte dell’autore – art. 25 Legge 633/1941.
Visto che la materia preme, è ampia e controversa, rivolgo oggi alcune domande all’amica ed esperta Maria Grazia Cavallo, Consulente in Proprietà intellettuale Praxi Intellectual Property.
Domanda: Maria Grazia, va da sé che occorrerebbe conoscere nello specifico i singoli contratti, probabilmente vi saranno delle clausole specifiche, forse in favore di un principio “alto” di autorialità, che noi non possiamo nemmeno immaginarci.
Ciò nonostante, la preoccupazione che queste cessioni di diritti comportino in un futuro più o meno prossimo un depauperamento o snaturamento di una certa idea iniziale dell’opera sembra concreto, sei d’accordo?
Maria Grazia Cavallo: A questa domanda occorre ovviamente e preventivamente rispondere specificando, mettendosi d’accordo su cosa si intende per "depauperamento’’ o ’’snaturamento’’. Vediamo quindi le ragioni di chi lo può considerare tale e di chi non necessariamente lo potrà vivere o percepire in questo modo.
Dal punto di vista di noi boomer più nostalgici potrebbe certo concretizzarsi una sorta di perdita. Non è e non sarà facile per noi, ma dobbiamo farci una ragione dell’evoluzione dei gusti, delle mode, delle tendenze e del fatto che le realtà debbano adeguarsi ad esse per incontrare l’apprezzamento di alcuni settori di mercato legati alle più giovani generazioni. Porto un esempio “sulla mia pelle”. Non dimentico l’entusiasmo dei miei figli Millennial, l’ormai imperante Generazione Y, legato al pezzo dance Light my fire di – tal – Will Young. Correva l’A.D. 2002 e che ne sapevano loro degli anni ’60-’70, del rock psichedelico, etc. etc.? Quando feci ascoltare loro l’originale, del 1967, fu evidente anche a me che, lì, c’erano tante altre cose intellegibili a un’altra generazione, ma che, loro, soffocavano senza “l’air du temps” e, forse, anche per la lunghezza del brano...
Come già precisavi, le cover sono sempre esistite, alcuni artisti come Amy Winehouse ne hanno rilanciato il genere e anche il più “ortodosso” di noi boomer non può non aver apprezzato le versioni di José Feliciano o Stevie Wonder, tanto per restare in tema di Light my fire. Inoltre, in tempi di inaridimento tendenzialmente generalizzato, non possiamo non ammettere che una cover di un classico fa spesso centro ed ecco perché oggi la cover risulta ufficialmente sdoganata e anzi "di tendenza". È quindi probabile che le future generazioni ascolteranno Light my fire dei Doors con lo stesso interesse e ammirazione che si può avere verso una raffigurazione scultorea di una Venere Paleolitica nel corso di una visita in un museo d’arte preistorica. E, chissà, forse sarà questo un valore aggiunto alla loro bellezza.
Invece, non necessariamente sarà un depauperamento o snaturamento: ma in quale senso? Beh, credo e mi auguro che, se non proprio l’idea iniziale sottesa alle opere, che per forza di cose e per cause naturali svaporerà per motivi storici, la loro "sacralità" verrà mantenuta nelle utilizzazioni e nelle rielaborazioni proprio perché dovrebbe essere interesse di chi detiene i diritti evitare lo svilimento dell’opera ed evitarne usi non adeguati al loro livello. Qui è chiaro che non parliamo di usi parodistici, che sono un discorso a parte. Non conviene a nessuno – pragmaticamente e in un’ottica di mercato – togliere valore alla bellezza di un’opera, ancorché esteriore, anche se i suoi significati primordiali e reconditi resterebbero conosciuti a pochi.
Domanda: Passo allora a domande precise, per inquadrare il fenomeno. Cosa cedono alle major questi autori?
Cavallo: Premettendo che parliamo di quanto regolamentato dalla nostra legislazione in materia, vengono ceduti i diritti patrimoniali di sfruttamento economico, di cui le major potranno disporre.
Le cessioni possono riguardare due diverse realtà.
Bisogna infatti distinguere tra diritti editoriali, detti anche "catalogo editoriale", cioè diritti su testi e composizioni, e diritti su catalogo master, cioè incisioni di tutto il repertorio, quindi registrazioni, album, future incisioni, che sarebbe la parte discografica.
Risulta ad esempio che Bob Dylan abbia ceduto i primi nel 2020 a Universal Music Publishing e i secondi a Sony Music, mentre gli eredi di David Bowie hanno chiuso con Warner Music un accordo riguardante sia la parte editoriale che quella discografica.
Domanda: Cosa rimane nelle mani degli autori?
Cavallo: Agli autori rimangono, e non è poco, i diritti morali, che, a differenza dei diritti patrimoniali, sono inalienabili, imprescrittibili e irrinunciabili.
Inoltre, i diritti morali comportano che l’autore abbia il diritto di essere indicato e riconosciuto pubblicamente come creatore dell’opera, di cui in ogni momento può rivendicare la paternità – art. 20 Legge sul diritto d’autore italiano.
L’autore può esercitare tale diritto sia rivendicando a sé la paternità della sua opera, sia con il pretendere che il proprio nome sia apposto sugli esemplari dell’opera o indicato in occasione di ogni forma di utilizzazione e di comunicazione pubblica, come l’esecuzione, la rappresentazione, la proiezione cinematografica, la diffusione radiofonica e televisiva, la recitazione e così via.
I diritti morali possono essere esercitati indipendentemente dai diritti patrimoniali, anche quando questi sono stati ceduti a terzi e possono essere esercitati: anche dopo la morte dell’autore: dal coniuge, discendenti e ascendenti e, in taluni casi, anche dalla nostra Presidenza del Consiglio.
I diritti morali consistono nel diritto di rivendicare la paternità dell’opera e opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione e a ogni atto a danno della stessa.
Questi diritti sono esercitabili quando si configura, con la loro violazione, un pregiudizio all’onore o alla reputazione dell’autore.
La rivendicazione dei diritti morali muove al di fuori di ottiche patrimoniali, agendo bensì in una prospettiva di rispetto e dignità dell’opera.
Tuttavia, è in Tribunale che va dimostrato che la violazione dell’opera ha effettivamente comportato un danno all’onore dell’opera stessa o alla reputazione dell’autore.
Qualora essa sia dimostrata, e non è proprio agevole, anche perché in questo campo è tutto molto soggettivo, il rivendicante potrebbe ottenere un risarcimento, e questo sarebbe l’unico caso in cui il diritto morale diventerebbe "monetizzabile".
Il diritto di opporsi a qualsiasi deformazione o modifica dell’opera che possa danneggiare la sua reputazione tutela non solo le modifiche dell’opera, ma anche le modalità di comunicazione che ne possano cambiare la percezione e quindi il giudizio da parte del pubblico, come ad esempio l'utilizzazione dell'opera per la promozione o per la pubblicità di determinati prodotti.
Chi crea un’opera ha il diritto di essere giudicato dal pubblico per l'opera così come l'ha concepita e di conservare la reputazione che deriva dalla corretta conoscenza della stessa. Tuttavia, l’autore non può impedire l’esecuzione delle modifiche alla sua opera o chiederne la soppressione quando ne abbia avuto conoscenza e le abbia accettate.
Inoltre, agli autori rimane ciò che sono riusciti a ottenere in sede negoziale e di accordo finale. Ad esempio, possono richiedere che non vengano fatti determinati usi per determinate opere. Posso dire però che può succedere che tali clausole non risultino poi in concreto effettivamente così "enforceable" e che, in caso di violazione, non resterebbe per l’autore se non il ricorso in Tribunale, con esiti spesso incerti.
Cosa potranno o non potranno fare le major si deciderà dunque in sede contrattuale.
Domanda: Mi sembra di capire da quanto ci dici che l’attuale normativa italiana, se non quella europea, tuteli in modo fattivo la proprietà intellettuale dell’opera originaria anche nel momento del passaggio dei suoi diritti. A questo proposito, ci sono invece differenze significative nel diritto anglosassone?
Cavallo:
Il diritto d’autore in Europa è gestito dalle normative nazionali, dalle direttive di armonizzazione e da accordi multilaterali, su tutti, la Convenzione di Berna, che risale al 1886 e stabilisce la reciprocità di tutela del diritto d’autore tra i vari stati contraenti, tra cui i paesi membri dell’Unione Europea.
Gli Stati Uniti hanno aderito solo nel 1989 e questa adesione tardiva la dice lunga sulle diverse impostazioni, che derivano da storia e cultura diverse.
Si dice che fu Victor Hugo, il padre del Romanticismo, ad avere l’idea della Convenzione di Berna.
E mentre da noi i diritti morali sono inalienabili, quasi in nome di una visione filosofico-spirituale “sacrale”, nel diritto anglosassone, essi sono contrattualmente cedibili, perché considerati un “tutt’uno” con i diritti patrimoniali e ciò offre indubbiamente una maggiore elasticità gestionale.
Sempre in questa visione filosofica-spirituale “sacrale”, vediamo che da noi il diritto d’autore nasce nel momento della creazione dell’opera e non richiede registrazione, quasi che fosse un’espressione di puro genio, mentre negli USA è un diritto titolato al pari del marchio.
Dunque, negli USA prevale in linea di principio una visione più utilitaristica, anche se alcuni singoli stati hanno avviato normative interne per tutelare meglio gli interessi degli artisti, ispirandosi alle normative europee.
Il riconoscimento dei diritti morali "separatamente" da quelli patrimoniali è previsto negli USA limitatamente alle arti visive.
Domanda: Il trend in questione, che riassumo nella tendenza di grandi e affermati autori della musica internazionale, star di primissimo livello, ad alienare in parte o totalmente i diritti della propria produzione musicale, di cosa potrebbe essere sintomo?
Si è parlato di una semplice liquidazione dei propri interessi, per evitare questioni di successione o gestione del proprio patrimonio da parte degli eredi e di congiuntura favorevole di mercato.
Ma si potrebbe anche parlare di fine di una certa tipologia di gestione dei diritti d’autore come l’abbiamo praticata fino a ora?
Di un cambiamento globale nella liberalizzazione dell’uso e della riproduzione del patrimonio artistico musicale?
Un’espropriazione forzata dei diritti d’autore musicali, magari voluto anarchicamente/velleitariamente dalla Gen Z ma fortemente voluto/spinto dai social, nel proprio mero e assoluto interesse?
Cavallo: Io credo ci siano vari fattori in gioco e vari piani di lettura, tra cui la secolarizzazione, che è divenuto un processo inarrestabile, avviato negli anni ’90 dall’avvento della rete e dal fenomeno Napster che innegabilmente ha creato un vero e proprio shock in ambito dei diritti d’autore.
Hanno contribuito, nei primi anni 2000, i primi, embrionali movimenti no global in ambito dello strumento del marchio, come ad esempio la famosa opera iconoclasta No logo di Naomi Klein, che hanno affermato sentimenti anticapitalistici e aperto la strada alla digital economy, per approdare poi ai movimenti quali Wikimedia e Creative Commons, che operano nell’ambito della cultura libera e promuovono la diffusione di contenuti liberi, tramite licenze libere rilasciate dai loro autori, così da consentire l’elaborazione e la diffusione gratuita per ogni scopo, anche commerciale, nella convinzione che l’accesso alla cultura non debba incontrare ostacoli.
Si è squarciato un velo e cominciato a percepire la fragilità del sistema su cui tali diritti poggiava.
Sempre nel settore del diritto d’autore e più specificatamente nel settore delle riproduzioni delle opere visive e delle immagini dei beni culturali, assisto all’affermarsi di una tendenza alla liberalizzazione, che percepisco come inarrestabile e prevedo che presto o tardi inciderà sulle normative.
È innegabile che il principio dell’open access venga raccomandato e sostenuto dall’UE. Già nel 2015, la Commissione Europea aveva pubblicato la comunicazione Verso un quadro normativo moderno e più Europeo sul diritto d’autore, che illustra una visione a lungo termine su un futuro aggiornamento delle normative. Il documento ha preso forma nella Direttiva 2019/790, per il cui recepimento l’Italia, detto per inciso, è stata sottoposta a una procedura di infrazione… fino al punto che, finalmente, non l’ha recepita a novembre scorso.
Devo dire che l’ambito musicale ne è uscito bene, con lo stabilimento di regole per la diffusione dei contenuti protetti su Internet e per la valorizzazione dei diritti degli artisti più giovani tramite il principio dell’equo compenso, cioè una remunerazione più adeguata e proporzionata dello sfruttamento via web delle loro opere.
Neil Young
Ora, è vero che non si può generalizzare e che la mia esperienza, limitata all’ambito immagini e beni culturali, può influenzare le mie fosche previsioni, allo stesso tempo però il peso dei movimenti globali diventa sempre più significativo.
Allora io penso che, nel timore di un’evoluzione normativa in crescente direzione della liberalizzazione, siano del tutto giustificate le ansie degli artisti più avanti negli anni, che, forse in una visione catastrofica se non apocalittica delle sorti de diritto d’autore, preferiscono concludere la loro carriera con una concretissima monetizzazione di quanto da loro creato invece di lasciare in eredità ai loro figli e nipoti una gamma di diritti che nel tempo potrebbero non essere più… diritti, se non diritti mutilati.