Dopo essersi intrufolato tra le partiture dell'American Songbook dai primi anni 2000 e aver rinverdito con la sua aria da scanzonato crooner molti tra gli standard jazz più famosi, Rod Stewart si mette a frugare ora nel repertorio delle storiche big band, soprattutto quelle degli anni '30 e '40, cioè dell'epoca dorata dello swing. Diverse orchestre costituite da almeno una decina di elementi e munite di una generosa sezione di ottoni si sfidavano a quei tempi nelle sale da ballo in vere e proprie battaglie musicali, facendo danzare e divertire il pubblico. Alcune tra le mitiche formazioni allargate come quella di Stan Kenton, Duke Ellington, Count Basie, Tommy Dorsey, Glenn Miller e dei clarinettisti Artie Shaw e Benny Goodman hanno partecipato alla costruzione dell'epopea del jazz, il tempo cioè in cui questa musica stava diventando realmente popolare e assumeva i connotati della spensieratezza e della joy de vivre. Dalla seconda metà degli anni '40 in poi, con l'avvento dei grandi solisti e delle formazioni più ridotte a quartetto, quintetto ecc. ecc. il jazz non si ballerà più. Si ascolterà, invece, assiepati in minuscoli locali tra giovani hipsters neri, studenti universitari bianchi e i primi spacciatori di droghe dure.
All'età di settantotto anni Stewart insegue ancora i suoi sogni di ragazzo dimostrando come sia impossibile separare un uomo dalla propria ombra. Nonostante la voce abbia perduto un po' di potenza, lo spiritaccio resta uguale e in questo suo ultimo lavoro, Song Fever, il rock lascia il posto allo swing, al boogie-woogie, al jumping blues, un insieme di generi musicali simili che, fa capire lo stesso Stewart, possono essere considerati, sotto un certo punto di vista proprio per la loro anima gioiosa come il rock'n'roll degli anni '30.
Per scodellare tutte e tredici le cover presenti nell'album, Rod ha trovato il perfetto testimone e coadiutore nel pianista Jools Holland, ex membro degli Squeeze, e nella sonorità vintage della sua Rhythm and Blues Orchestra, una grossa formazione di una ventina di elementi tra musicisti e coriste. Lo scoppio degli strumenti a fiato, la ritmica pressante e il canto al Martini Dry di Stewart fanno sì che Song Fever ci scorra tra le mani con un certo candore, come un gioco immaginario in cui si faccia finta di vivere in un tempo passato... Un omaggio d'autore? Mi chiedo cosa spinga, alle volte, musicisti ormai pienamente affermati a cimentarsi in iconici recuperi come questo, ripescaggi a cui Stewart non è certo nuovo, visto i precedenti. Ma dobbiamo saper valutare con equilibrio la carriera del nostro, dall'unione con Ron Wood per formare i Faces, nati nel '69 dalle ceneri degli Small Faces, al suo primo disco uscito in quegli stessi anni, An Old Raincoat Won't Ever Let You Down, ai quali sono seguiti oltre una trentina d'album come solista, senza contare le altrettanto numerose raccolte a suo nome. Dal clima incendiario degli anni '60 viene quasi naturale, con l'età più avanzata – non oso utilizzare l'aggettivo senile con un tipo come Stewart – in parte adagiarsi in un certo autocompiacimento nonché desiderare di allargare il proprio vocabolario, misurandosi appunto con le interpretazioni storiche di altri generi autoriali. Del resto, un'operazione simile, per certi versi ancora più radicale, l'ha testata uno come Brian Ferry, ad esempio con il suo album The Jazz Age del 2012, registrato volutamene in lo-fi – immagino la strabordante gioia di tutti gli audiofili – al fine di ricreare le atmosfere degli anni ruggenti.
Per quello che riguarda il pianista e il conduttore televisivo Holland e la sua orchestra, questi contribuisce fondamentalmente alla messa a fuoco della realizzazione che ha nell'arrangiamento il suo punto di forza. Sembra quasi che la potenza orchestrale, non immune però a certe raffinatezze, riesca a spingere la voce di Stewart al di là delle sue attuali possibilità, senza intaccarne la roca qualità che l'ha sempre contraddistinta.
Lullabye of Broadway è un epocale brano del 1935 di Harry Warren e Al Dubin, con i versi che a un certo punto dicono “don't sleep tight until the dawn...” e ben illustrano il clima dell'ipotetica notte ruggente newyorkese tutta da ballare. Ascoltiamo i fiati con trombe sordinate sullo sfondo che swingano fino alla morte e la voce di Stewart accompagnato dalle coriste, su una ritmica più che incalzante. Esubera ben allegro il piano di Holland e quando sembra che il pezzo, rallentando, debba finire, l'abbozzo di risata sarcastica del cantante fa capire che, no, non finisce certo qui. La notte è ancora lunga e l'orchestra continua a sottolineare il tema, comparendo anche una sorta di tip-tap e di battimani. L'assolo di piano non è certo quanto di meglio ci sia sulla piazza ma, nel contesto molto suggestivo dei cori femminili e nel vocalizzo conclusivo di Stewart, trova anch'esso la sua giusta collocazione.
Oh Marie altro non è che una famosa canzone napoletana firmata da Di Capua e Russo nel 1899, titolo originale Maria Marì, rivisitata da Louis Prima e resa irriconoscibile dallo stravolgimento swingante operato dallo stesso. Così l'andamento poetico dell'intera canzone – “...quanta suonno ca perdo pe 'tte...” – lascia cadere l'alone del romanticismo datole da Murolo per trasformarsi in una scattosa esecuzione tutta verve e fuochi d'artificio orchestrali.
Sentimental Journey è un brano del 1944 di Brown-Horner-Green portato al successo da Doris Day, reso qui in forma blues e introdotto dagli accordi di Holland. Stewart cavalca questo pezzo senza forzature, in tutta rilassatezza, come se stesse consumando una birra al banco, ma tenendo salde le redini dello swing che pervade la musica. Il pianoforte ha forse poca fantasia nel suo stomp e senza dubbio fanno qui miglior figura il pieno degli ottoni e il whoo-whoo delle coriste.
Pennies from Heaven fu composta nel 1936 da Johnston e Burke e rimangono in memoria le versioni di Bing Crosby con l'orchestra di George Stoll e poi quelle di Louis Prima e Frank Sinatra. Un organo frizzantino spumeggia tra il boogie orchestrale introdotto da un breve assaggio di rullante e la voce piena di nebbia mattutina del cantante.
Night Train è un classico blues con le sue belle dodici battute la cui origine è stata piuttosto travagliata. Fu inizialmente Ellington a scrivere il riff di apertura nel 1940 ma, in un secondo tempo, un membro della sua orchestra, il sassofonista Jimmy Forrest, gli costruì attorno la vera e propria canzone, con il contributo di Oscar Washington e Lewis P. Simpkins. Curiosi i fiati che imitano il fischio del treno, ben costruito l'incrocio tra chitarra elettrica, con l'assolo di Mark Flanagan, e le tastiere. Il coro aggiunge un po' di pepe soul e al resto pensa Stewart.
Love is the Sweetest Thing è una canzone scritta dal britannico band leader Ray Noble e da Charles Wilmott nel 1932. Si tratta di uno swing in mid-tempo che procede un po’ più lentamente rispetto agli altri brani dell'album e che non si sarebbe trovato male nemmeno tra le corde vocali di Van Morrison. Un ottimo assolo di sax riesce a venire a galla nel pieno gorgo orchestrale, facendosi largo tra le fibre corpose degli altri fiati.
Them There Eyes è una canzone del 1930 scritta da Maceo Pinkard, insieme a Tauber e Tracey, che vide molte importanti interpretazioni, ad esempio quella di Louis Armstrong e soprattutto di Billie Holiday incisa nel '39. L'accompagnamento orchestrale è addirittura abbagliante e si basa su un botta e risposta tra un assolo di sax e la conseguente rimonta della sezione trombe. La voce di Stewart, in sessant'anni di carriera, è rotta a tutte le esperienze e ben si adatta alle dinamiche parossistiche della stessa orchestra.
Good Rockin' Tonight era in origine un jamp blues scritto nel 1947 da Roy Brown. Oltre a essere stato cantato dal suo autore, un importante interprete di R&B negli anni '50, questo brano divenne famoso perché fu ripreso da Elvis Presley nel '57. La versione di Stewart è quasi un rockabilly che si muove sinuosa tra i barriti orchestrali e il rabbioso assolo di Flanagan alla chitarra.
Ain't Misbeahavin' è frutto del lavoro creativo del grande pianista Fats Waller con il testo di Andy Razaf ed è una traccia del 1929. Lo schema del mid-tempo con cui viene impostato il brano viene interrotto due volte, la prima per introdurre una parentesi ritmica jungle con tanto di tamburi tribali e la seconda per consentire l'accesso a uno swing con i coretti shooby-dooby annessi.
Frankie and Johnny è un traditional, o meglio una murder song, che racconta la storia di un omicidio-suicidio in cui la bella Frankie, dopo aver scoperto il suo Johnny a trastullarsi con un'altra donna, decide di farlo fuori, suicidandosi subito dopo. Conoscendo la travolgente propensione di Stewart per le femmine, penso che questi potrebbe aver cantato il pezzo, sotto forma di R&B, con una certa qual forma di disagio... anche se, dal punto di vista esecutivo, non c'è da fargli alcun appunto.
Walkin' my Baby Back Home porta la firma di Fred E. Ahlert e Roy Turk e fu realizzata nel 1930. La sua fama divenne più vasta con la versione che ne diede Nat King Cole nel 1951. Curiosa la veste con cui Stewart & Holland abbigliano questa canzone, trasformandola in un brano ska.
Almost Like Being in Love, nonostante sia tra i brani più tranquilli della raccolta, per me è decisamente tra i migliori. Cantato benissimo con senso della misura ed eseguito con grande perizia orchestrale: prestate attenzione al modo in cui i fiati contro-cantano rispetto alla voce solista. Inoltre, c'è un bell'assolo di chitarra acustica nello stile di Django Reinhardt e un curioso scampanio da cerimonia nuziale nel finale. Il brano fu scritto da Loewe-Lerner per il musical Brigadoon, da cui fu tratto l'omonimo film diretto nel 1954 da Vincent Minnelli, con la partecipazione di Gene Kelly.
Chiude Tennessee Waltz, un brano prodotto nel 1946 da Redd – non Rod – Stewart e Pee Wee King. Emblema della musica country americana, questo è l'unico passo falso dell'album, in quanto la sua trasformazione orchestrale in un improbabile vortice stomp è tirata per la giacchetta quanto più non si potrebbe.
Non dovremmo far troppo i sofistici quando parliamo di un lavoro di “modernariato” come questo. Mi sembra che possa essere tutto grasso che cola quando un artista vicino all'ottantina si metta di buzzo buono a editare un album con tutta la pirotecnica energia possibile, pur se dedicata a un'importante parentesi musicale del passato. Un lavoro divertente e ben fatto, costruito su melodie sempre leggibili, sulla falsariga del già citato Brian Ferry e di Van Morrison e anche dello stesso Stewart, che ha alle spalle ben cinque dischi dedicati al Great American Songbook. Si può parlare di narrazione volubile e di molta ambizione ma non certo di presunzione, dato che a un artista come Stewart possiamo concedere tranquillamente iniziative di questo tipo, certi che saprà affrontarle per il giusto verso, così come è accaduto anche in questo caso.
Rod Stewart with Jools Holland
Swing Fever
CD e LP Rhino 2024
Disponibile in streaming su Qobuz 24bit/96 kHz e Tidal qualità max fino a 24bit/192kHz