Possiamo raccontare tutto quello che vogliamo di Ryley Walker tranne che sia un tipo che ama le cose semplici. Anzi, vien da pensare che certe complicazioni egli stesso se le crei volontariamente per aver più gusto poi nel risolverle. Come volesse dimostrare che, pur incasinandosi da solo, riesca sempre – o quasi – a risolversi con intelligenza ed elegante leggerezza. Non ho mai letto, inoltre, di un musicista come lui a cui siano stati riconosciuti così tanti padri putativi fra i più disparati e improbabili. Formazioni storiche di progressive che solo a nominarle fan tremare i polsi, autori tanto importanti e diversi il cui rispettivo accostamento l’un l’altro suonerebbe come un’irrisolvibile aporia. Walker ha digerito tutte le lezioni del suo corso d’apprendimento da cui è stato licenziato con una laurea poco classificabile. Ogni sua uscita discografica mostra un volto differente, come una luna con diverse facce, che però non ne presenta mai una uguale, e il sospetto che ve ne sia ancora un’altra nascosta diventa certezza a ogni sua proposta musicale. Walker è un artista politropo, poco definibile, nonostante si cerchi continuamente di affibbiargli parentele forzate. La sua musica rifugge la banalità come la peste e si dimostra molto ricca di spunti, di accelerazioni e rallentamenti, cambi direzionali, pentimenti improvvisi e momenti estatici.
Il suo sesto album da titolare apre una finestra su certi paesaggi degli anni ’70 e ci permette di respirare un’aria già conosciuta ma pur sempre fresca, capace di dilatare i polmoni come raramente accade nella sempre più prevedibile musica rock di questi tempi. Non sempre le melodie appaiono così lineari ma, nei rari momenti critici, intervengono gli arrangiamenti, molto classici e chitarristici della band che lo accompagna, arricchendo l’immagine musicale con strutture esteticamente ragionate, che lasciano spazio nullo all’improvvisazione.
L’album in questione, Course in fable, è opera piena di fascinoso incantamento. C’è qualche spunto progressive ma l’unica band che mi è venuta in mente a proposito sono i Gentle Giant, e solo per brevi attimi, soprattutto in A lenticular slap. Magari qualche flash in lontananza da Happy sad di Tim Buckley, ma le somiglianze, per non cadere nella trappola a cui accennavo all’inizio, voglio farle finire qui. Per quello che riguarda i testi bisogna dire che lo stesso Walker ha ammesso di unire tra loro frasi spesso disparate e scritte in tempi diversi, facendosi guidare da un’inconscia intuizione a suggerirgli immagini e sensazioni.
Oltre alla voce e alla chitarra di Walker qui suonano e molto bene: Bill MacKay, chitarra e piano; Ryan Jewell, batteria; Andrew Scott Young, basso; più gli archi arrangiati da Douglas Jenkins. Striking down your big premiere apre le danze con un intro che rimanda a certe suggestioni prog di cui si è già accennato, con un basso poderoso e saldamente vincolato ai persuasivi arpeggi di chitarre. Rang dizzy è una splendida ballata impreziosita dagli archi, una melodia convincente con uno stacco, nel mezzo, tratteggiato da una trama di chitarra elettrica, che riporta filologicamente un po’ indietro negli anni, ma senza l’ingombrante peso della nostalgia. Un recupero di atmosfere seventies, quindi, condotto comunque con piglio deciso e mano ferma. A lenticular slap è piuttosto strumentale e sperimentale, almeno nei primi due minuti e mezzo, non sempre lineare nell’intenzione e con qualche patch di troppo ma pur sempre ricca di quel fascino discontinuo che caratterizza tutto l’andamento dell’album. S’affaccia la forma-canzone in Axis bent, che parte come una deliziosa pop song, salvo poi, verso la fine, deviare inaspettatamente in direzioni dissonanti a risolversi con la ripresa della melodia originaria. Poesia pura in Clad with bunk, una traccia con molte frecce al suo arco, ben utilizzate nel ritornello e nello stacco a metà brano, dove compare un ficcante riff di chitarra verso l’assolo finale che fa sembrare l’intero pezzo come fossero due brani distinti anziché uno solo. Pound scum ocean è forse un po’ troppo sperimentale in un disco come questo. Inizialmente sembra un brano da cocktail dopolavoristico, con quelle insistenti percussioni lounge. Poi, fortunatamente, gli effetti di chitarra che seguono subito dopo fanno deviare il tutto verso qualcosa che ricorda gli Henry Cow e l’ala più oltranzista della scuola di Canterbury. Siamo però dall’altra parte dell’oceano, tutto sommato immersi in un groove statunitense dal deciso sapore psichedelico. Si chiude con una classica pop song dal ritornello che più accattivante non si può, Shiva with dustpan, e che invita compulsivamente il mouse a cliccare l’altoparlantino di Tidal per poter riascoltare il brano in continuazione.
Walker è musicista appassionato, pieno di idee sorprendenti, anche se spesso un po’ disordinate, disseminate in una fantasiosa ars combinatoria che lega l’ascoltatore in un continuo e turbinoso giro di giostra. L’effetto che in definitiva provoca Course in fable è quello d’innescare il desiderio di ripetere la corsa tra le tracce per riviverle di nuovo, segnale inequivocabile del gradimento globale di questo disco.
Ryley Walker
Course in fable
Lp/CD Husky Pants records 2021
Reperibile in streaming su Tidal MQA master